Il politicamente corretto europeo si allea al regime comunista e censura il saggio scientifico di due professori di Hong Kong sulle vere origini della pandemia.
La mannaia della censura si abbatte su chiunque cerchi di sottolineare le colpe della Cina nella diffusione della pandemia. Questo però non avviene solo dalle parti di Pechino, ma anche a Hong Kong, e non solo per opera del governo comunista ma anche degli accademici europei. L’articolo del dottor Yuen Kwok-Yung e Lung David, uscito il 18 marzo su Mingpao, è insomma diventato un caso internazionale e di scuola.
«FERMIAMO IL COMMERCIO DI ANIMALI SELVATICI»
I due microbiologi di Hong Kong hanno avuto un ruolo importante rispettivamente nello studio della Sars e del Covid-19: parlano dunque a pieno titolo. E che cosa hanno scritto? Hanno spiegato per quali ragioni scientifiche ritengono che il virus sia nato a Wuhan e non all’estero, come le teorie cospirazioniste diffuse da Pechino vorrebbero far credere, e quale ne sia la vera origine.
Gli studiosi denunciano cioè la compravendita di animali selvatici che ancora oggi avviene in Cina e attaccano il Partito comunista per non essere stato in grado di fermarlo a 17 anni dallo scoppio dell’epidemia di Sars: «Se il commercio di questi animali continuerà, tra circa una decina d’anni avremo inevitabilmente una Sars 3.0».
LA VERA ORIGINE DELLA PANDEMIA
Yuen e Lung, parlando francamente, criticano anche la «pessima abitudine del popolo cinese» di «catturare e mangiare animali selvatici». Queste pessime abitudini «sono all’origine di questo virus. E se niente cambierà, avremo inevitabilmente una Sars 3.0». In questo passaggio è contenuta una critica implicita anche alla medicina tradizionale cinese che in alcuni casi consiglia di mangiare le squame di pangolini (i principiali indiziati della trasmissione all’uomo del Covid-19) per curare l’impotenza maschile o gli zibetti (che hanno trasmesso la Sars nel 2003) per aumentare il proprio “qi”, la propria forza ed energia interna.
I due microbiologi, dunque, hanno rintracciato l’origine della pandemia in una pessima abitudine di parte della popolazione cinese, in un aspetto della medicina tradizionale cinese e nella cultura politica del Partito comunista, che nonostante disponga di enormi mezzi di controllo ha permesso che il commercio di animali selvatici continuasse indisturbato nel paese.
LA CENSURA ARRIVA ANCHE DALL’EUROPA
L’articolo ha causato un’insurrezione sui social media cinesi e il governo ha fatto pressione su Hong Kong perché venisse censurato, accusando Yuen, uno dei massimi esperti in materia, di essere «antipatriottico». Alla fine i due autori sono stati costretti a ritrattare le opinioni e a scusarsi. Non è certo la prima volta che la Cina limita la libertà di espressione e accademica a Hong Kong. E dunque non ci sarebbe neanche da stupirsi se questa volta le critiche non fossero arrivate anche dall’Europa.
Il 20 marzo infatti il professore Jon Solomon, dell’università Jean Moulin di Lione, ha lanciato una petizione su Change.org per chiedere al presidente dell’Università di Hong Kong, dove Yuen insegna, addirittura di licenziarlo per il suo «razzismo coloniale» nei confronti dei cinesi. Come se un professore di etnia cinese non potesse criticare la cultura cui appartiene, come se il cibarsi di pangolini fosse diventato un affare di Stato.
IL POLITICAMENTE CORRETTO CHE SERVE AL REGIME
L’impressione, piuttosto sgradevole, è che la propaganda del Partito comunista cinese sia sempre più efficace e che l’ossessiva insistenza sul politicamente corretto occidentale faccia (volontariamente o meno) il gioco di Pechino. La censura accademica è ormai una triste abitudine a Hong Kong (dove è stata lanciata una contropetizione, che ha avuto molto più successo di quella del professor Solomon). Che ora venga promossa dall’Europa, oltre che dalla Cina, è però inquietante. Soprattutto se riguarda un tema così importante come il nuovo coronavirus, che ha già causato la morte di oltre 20 mila persone, la maggioranza delle quali in Europa.
Leone Grotti
27 marzo 2020
Si può dire la verità sul coronavirus? Per la Cina (e l’Europa) no