Cresce, ed è giusto che accada, il dibattito sulla necessità di rafforzare la linea sanitaria e sociale di difesa contro la pandemia di Covid–19. Cresce perché anche quando sarà passata – come tutti speriamo avvenga presto – la fase acuta dell’emergenza, resterà il pericolo della “seconda ondata” pandemica, e l’allerta, le misure di protezione e le cautele devono ancora accompagnarci, sperando che infine un vaccino ci faccia da scudo risolutivo.
Ne ha scritto anche Paolo Mieli sul “Corriere della sera”, giusto una settimana fa, giovedì 26 marzo, dicendo diverse cose sagge. Ma c’è un punto in cui il discorso si fa inquietante, quando illustrando la capacità e la sfida della scienza a fronteggiare le insidie della natura (cosa anch’essa bellissima) sembra emergere insofferenza per una questione etica che farebbe da barriera allo sforzo. Si tratta – cito – dei «limiti alla sperimentazione sulle cellule staminali a dispetto del fatto che tali cellule, come non si stanca di ribadire la scienziata svedese Malin Parmar, una riconosciuta autorità in questo campo, sono scarti della fecondazione in vitro, non sono mai state nel ventre di una donna ma sempre all’interno del frigorifero di un laboratorio». Si intende, evidentemente, la sperimentazione non con cellule staminali adulte, che adeguatamente riprogrammate costituiscono già una soluzione in diversi ambiti, ma di quella realizzata con staminali estratte da embrioni umani che in questo modo vengono sacrificati a scopo scientifico.
Scarti. Gli embrioni umani concepiti in provetta e non impiantati nel grembo perché in soprannumero, o rimasti fuori della selezione dei sani sarebbero “scarti”. No, non ci sono scarti fra gli esseri umani. Perché esseri umani vivi sono appunto gli embrioni, e appartengono alla nostra specie umana; come me e come Malin Parmar e gli altri, tutti. Tutti originati così, in quel primissimo stadio cellulare che ci ha dato identità. L’io non cambia con lo sviluppo corporeo. Concepito nell’abbraccio o fabbricato in provetta, l’embrione è uno di noi. Capace di continuare a vivere e svilupparsi in pienezza, come accaduto a Louise Brown – prima creatura umana concepita in laboratorio nel 1978 – e dopo di lei a molti milioni nel mondo.
Che ci siano altri milioni di figli, fatti allo stesso modo di Louise Brown, e però non accolti nel nido d’un utero materno ma accantonati nell’azoto liquido è un problema, sì: tuttavia non per dubitare della loro umanità, ma per chiederci se la disumanità non stia proprio nel produrli come oggetti e paralizzarne poi la vita, avviandoli a un fatale abbandono.
Scarti? Questa parola umanamente oscena viene colta sulla bocca di Malin Parmar, e poi raccontata. Però viene trasmessa, condivisa o meno non si sa.
E così un po’ alla volta, quasi per contagio indolore e asintomatico, si propaga l’idea che esiste una discarica di eccedenze produttive piene di potenza di vita abbandonata, che si potrebbero rottamare e riciclare invece che lasciar sospese in un freezer a tempo indefinito. Tanto, sono solo cose, e cose di scarto.
Cogliamo lo scandalo tragico nella follia inversa, cioè che ci siano vite umane abbandonate e scartate, proposte poi all’uso come cose. Ma quegli esseri umani non sono cose. Il Comitato di Bioetica italiano ne aveva proposto a suo tempo addirittura «l’adozione per la nascita» a fronte del diritto alla tutela della vita, ponendo in primo piano valori come solidarietà, generosità e responsabilità. Col passare degli anni, purtroppo, è cresciuto a dismisura altra il numero dei congelati e quello degli abbandonati.
È accaduto dopo la sentenza della Corte Costituzionale che nel 2009 levava il limite massimo dei tre embrioni concepibili per ciclo e obbligatoriamente trasferibili nel grembo materno, considerandoli vita umana meritevole di rispetto al pari di ogni altra. E a quei valori si è andato sostituendo il concetto di “utilità”, nobilitato dalla scienza e di una ricerca con effetti letali. Qualcuno ha persino avuto l’aria di donare “alla ricerca” il proprio figlio congelato nello stadio embrionale. È la vicenda che la Corte europea per i diritti umani ha esaminato e deciso con la nota sentenza della Grande Chambre dell’agosto 2015 (caso Parrillo), che affermò legittimo il divieto posto dalla legge italiana.
Parlò esplicitamente di «delicate questioni morali», e dell’assenza di omogeneo consenso degli Stati europei. No, non sono cose. Neanche gli embrioni malati e rifiutati. La nostra Corte Costituzionale, pur sforando sulla selezione, nella sentenza 229 del 2015 ha detto che neppure una malformazione ne giustifica – solo per questo – un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni “sani” creati in soprannumero e conservati nel gelo. L’embrione infatti «non è certamente riducibile a mero materiale biologico ». E con la sentenza 84 del 2016, quando furono reclamati i diritti della scienza, sottolineò come il divieto di sperimentazione regga in nome della dignità dell’embrione, che «costituisce, comunque, un valore di rilievo costituzionale». Oggi più di sempre, allora, restiamo umani. È l’unica garanzia perché nessuno mai diventi “scarto”.
Giuseppe Anzani
2 aprile 2020
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/mai-la-vita-scarto