La battaglia giudiziaria di Alina Dulgheriu per far cancellare il provvedimento che proibisce le veglie pro-life davanti alle cliniche.
Per la prima volta arriva alla Corte europea dei diritti umani il ricorso di una cittadina rumena residente nel Regno Unito contro un’ordinanza di un municipio diretta ad impedire ai gruppi anti-abortisti di manifestare, pregare e offrire aiuto alle donne che si recano alle cliniche per aborti nelle vicinanze dell’edificio. Alle argomentazioni legali fondate sui diritti alla libertà di pensiero, espressione, religione e associazione gli avvocati che rappresenteranno la 36enne Alina Dulgheriu potranno aggiungere un argomento molto cospicuo di natura esistenziale e fattuale: Sarah, la figlia di otto anni che Alina sta crescendo da madre single, è nata grazie all’offerta di aiuto che volontari dell’associazione Good Counsel le hanno proposto mentre stava per entrare in una clinica della Marie Stopes International nel centro di Londra per mettere fine alla sua gravidanza nel 2011.
È questo, del resto, il motivo tutto personale che ha spinto la signora ad adire le vie legali quando, nell’aprile 2018, il municipio di Ealing (West London) ha emanato un Public space protection order (Pspo), un ordine di protezione dello spazio pubblico per impedire qualsiasi attività alle organizzazioni anti-abortiste entro 100 metri dalla locale clinica per aborti gestita dalla Marie Stopes International. Alina Dulgheriu si è rivolta a un’Alta Corte, la quale ha emesso uno strano verdetto secondo cui i suoi diritti alla libertà di espressione e di libertà di riunione erano stati violati, ma il Pspo non poteva essere disatteso perché conforme alla normativa introdotta dall’Anti-social Behaviour, Crime and Policing Act del 2014.
Le linee guida del ministero degli Interni spiegano gli obiettivi di tale legge, che è stata criticata da molte organizzazioni per i diritti civili di ogni orientamento politico, e in particolare dei Pspo, previsti al paragrafo 59: «Gli ordini di protezione dello spazio pubblico sono concepiti per trattare particolari disturbi o problemi in una specifica area che pregiudicano la qualità della vita della comunità locale, imponendo condizioni per l’uso dell’area che si applicano a tutti. Sono concepiti per aiutare a far sì che la maggioranza rispettosa delle leggi possa usare e godere degli spazi pubblici al sicuro da comportamenti antisociali». La sentenza di primo grado è stata poi confermata da una Corte d’Appello nell’agosto dello scorso anno, che autorizzava però la Dulgheriu a ricorrere alla Corte Suprema. Quest’ultima però nel marzo scorso ha respinto il ricorso senza esame. Da qui la sua decisione di ricorrere alla Corte europea dei diritti umani.
Alina Dulgheriu è immigrata nel Regno Unito nel 2009 proveniente da Brasov in Romania. Ha lavorato come baby sitter per 100 sterline alla settimana più vitto e alloggio presso una famiglia di Ealing. Nel 2011 ha scoperto di essere incinta subito dopo che il suo fidanzato nigeriano l’aveva lasciata. Esortata a interrompere la gravidanza dall’ex e dalle sue stesse amiche, Alina si è rivolta a veri enti e figure istituzionali: il suo medico personale, il Barnet Hospital, il Citizens’ Advice Bureau e Marie Stopes International. Dappertutto la risposta è stata la stessa: abortire.
Recatasi nel centro doveva aveva scelto di effettuare l’intervento, Alina è stata fermata all’ingresso da una militante di Good Counsel che le ha subito prospettato la possibilità di un aiuto concreto per portare a termine la gravidanza. «Se non si fosse trovata lì, e non si fosse avvicinata a me, sono sicura al 100 per cento che sarei andata avanti con l’aborto», ha dichiarato Alina. Invece ha rinviato di tre settimane l’intervento già fissato e ha chiesto aiuto al gruppo pro-life, mentre continuava a fare la baby sitter senza informare i datori di lavoro della sua gravidanza. Quando questa è stata scoperta, di fronte all’indisponibilità della Dugheriu ad abortire la famiglia che l’aveva assunta come collaboratrice domestica l’ha licenziata. Sola, priva di alloggio e al quarto mese di gravidanza, Alina si è potuta infine trasferire in un appartamento grazie al sostegno di Good Counsel che ha pagato per 10 mesi l’affitto, dandole il tempo di riorganizzare la propria vita.
«La mia ragazzina oggi è qui grazie al sostegno pratico ed emotivo che mi è stato offerto all’ingresso di un centro Marie Stopes», ha detto Alina in un’altra dichiarazione. «E faccio appello alla Corte affinché questo sostegno vitale non sia negato ad altre donne. È inammissibile che un municipio trasformi in un atto criminale l’offerta di aiuto a una donna perché possa tenere il proprio figlio».
Nel 2018 Amber Rudd, ministro degli Interni nel governo di Theresa May, era stata sul punto di introdurre una legge per proibire le offerte di aiuto davanti alle cliniche per aborti in tutto il Regno Unito. Il sindaco di Londra Sadiq Khan fra gli altri aveva fatto pressioni dichiarando che i londinesi sarebbero rimasti «profondamente delusi» se il governo non si fosse mosso in quella direzione. Il successore della Rudd, Sajid Javid, ha definitivamente cassato il progetto affermando che l’iniziativa sarebbe stata sproporzionata, alla luce della natura “passiva” delle attività che i gruppi antiabortisti svolgono all’esterno delle cliniche e dei poteri che la legge attribuisce ai municipi e alla polizia.
Secondo Elizabeth Howard, portavoce del gruppo pro-life “Be Here For Me”, «Nei cinque anni di veglie pro-life a Ealing, più di 500 donne hanno accettato un’offerta di aiuto e scelto di tenere il proprio bambino piuttosto che abortire. Tutte queste donne hanno cercato più e più volte di far sentire la propria voce, ma sono state ignorate». Adesso provano a farsi sentire dalla Corte che siede a Strasburgo attraverso una di loro, Alina Dulgheriu.
Rodolfo Casadei
12 maggio 2020