Durante le esequie di Giovanni Paolo II si sono affacciate alla mia mente le immagini di tante celebrazioni all’aperto, anche sotto la sferza del sole oppure flagellate dall’inclemenza degli elementi, con la partecipazione di moltitudini di fedeli stretti attorno al Papa nei numerosi viaggi intercontinentali che, per suo incarico, ho avuto l’onore e l’onere di organizzare. Nelle acclamazioni, non usuali per un rito funebre, che più volte hanno interrotto l’omelia pronunciata dal card. Ratzinger, mi è sembrato di cogliere l’eco delle tante feste di popolo alle quali ho assistito sotto le latitudini più diverse. Mi è sembrato di rivedere i volti delle persone semplici, ma di fede viva, particolarmente di quelle che vivono in condizioni disagiate, che con tanto calore gli dimostravano il loro affetto.
Quando il Papa giungeva in un Paese lontano, i primi a rallegrarsi erano i poveri, specialmente per la sua presenza in mezzo a loro e per aver potuto partecipare almeno una volta a una solenne celebrazione eucaristica presieduta dal Supremo Pastore della Chiesa.
Ricordi del tempo del Concilio
L’incarico di preparare tutti i viaggi del Papa fuori d’Italia mi è stato assegnato nel 1982 ed è proseguito ininterrottamente fino al viaggio in Ucraina del giugno 2001. La mia conoscenza di Giovanni Paolo II era iniziata, sia pure episodicamente, molto prima che diventasse Papa. Durante i lavori del Vaticano II facevo parte del Comitato ristretto di teologi che si riunì nel 1965 ad Ariccia per elaborare un testo — il «testo di Ariccia» — che poi, dopo ulteriori emendamenti, è stato la base della Costituzione Gaudium et spes. Della Commissione mista riunita ad Ariccia faceva parte mons. K. Wojtyła, che vi era stato cooptato perché si sentiva il bisogno di una voce proveniente dal mondo dei Paesi oppressi dal comunismo. I lavori si protrassero per una settimana. In quell’occasione mons. Wojtyła destò una grande impressione. Ricordo il giudizio espresso dal p. Congar nel suo diario: «La personalità di Wojtyła si impone, egli irradia da sé una specie di fluido, un’attrazione, una certa forza profetica». In breve tempo mons. Wojtyła conquistò, oltre all’ammirazione del teologo domenicano, anche quella del gesuita Daniélou e di mons. Guano, che era il coordinatore del gruppo, riuscendo a farsi apprezzare anche dai teologi tedeschi che, in quel momento, erano i più critici sull’impostazione del documento.
Durante le sessioni tenute ad Ariccia mons. Wojtyła sottolineò il problema dell’ateismo marxista, al quale la Chiesa deve far fronte con una proposta positiva e alternativa a tale visione; mise poi in evidenza la situazione dei Paesi nei quali non viene rispettata né la libertà di coscienza né la libertà di professare in pubblico la propria fede; quindi attirò l’attenzione sulla centralità della persona umana in una visione cristocentrica. La famosa frase «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo», che si trova nel testo definitivo della Gaudium et spes (n. 22), si deve in parte ad alcuni suoi interventi e forse questo numero 22 è il testo del Concilio che Giovanni Paolo II ha citato più spesso, fino a farne il perno del suo pontificato, come appare dalla sua prima enciclica Redemptor hominis. Quando uscì questa enciclica, fui incaricato di presentarla nella sala stampa della Santa Sede. Prima di parlare con i giornalisti incontrai il Papa per sapere da lui se stavo interpretando bene il suo pensiero. Gli esposi quello che volevo dire ai giornalisti, che in parte poi corressi in base alle osservazioni che egli mi fece.
Dissi allora ai giornalisti che il Papa era preoccupato per certe tendenze postconciliari che prestavano poca attenzione al mistero della Chiesa, che pure costituiva il cardine della Costituzione dogmatica sulla Chiesa (Lumen gentium, cap. I), e si tendesse piuttosto a privilegiare gli aspetti organizzativi in una sorta di ripiegamento della Chiesa su se stessa negli aspetti più esteriori. Egli ha inteso invece presentare ai cristiani un’ecclesiologia fortemente e radicalmente cristocentrica.
Fui incaricato di presentare anche la seconda enciclica del Papa, la Dives in misericordia, promulgata nel 1980, un anno e mezzo dopo la sua elezione al papato. Mi ha sorpreso constatare come questa enciclica, al pari della precedente, abbia segnato tutto il pontificato di Giovanni Paolo II. Ne abbiamo avuto l’espressione più piena soprattutto nell’ultimo viaggio del Papa in Polonia, dove ha sottolineato in maniera particolarmente intensa il tema della misericordia. Fin dall’inizio del suo pontificato parlava della necessità della misericordia per garantire all’uomo un futuro migliore sulla terra, dove si profila sempre più l’ombra oscura di tante minacce. Davanti ai pericoli che incombono, la misericordia diventa quasi un singolare appello che Dio lancia all’umanità servendosi come tramite della sua Chiesa. Dalla misericordia si passa alla necessità di saper chiedere il perdono come base della riconciliazione e della pace.
Quando sono stato incaricato di preparare i viaggi del Papa, ho dovuto cominciare a occuparmi di tutti gli aspetti concernenti l’organizzazione di questi eventi, e quindi non soltanto di trattare con i vescovi, i sacerdoti e i laici impegnati nell’assicurare la buona riuscita di ogni viaggio, ma dovevo trattare con i Governi, dovevo occuparmi del protocollo, della sicurezza dei trasporti per terra, per aria e qualche volta anche per mare. Dovevo trovare gli alloggi anche per i giornalisti che avrebbero viaggiato con il Papa. C’erano molti aspetti tecnici da valutare. Le riunioni con il Papa, che precedevano e seguivano i miei viaggi di preparazione e di sopralluogo, si tenevano a pranzo o a cena, intorno alla sua tavola. Il Papa era interessato soprattutto a conoscere le impressioni che avevo avuto nei contatti con i vescovi e con i Governi, e che cosa dovesse dire alla nazione che andava a visitare. Uscendo dalla sala da pranzo si andava in cappella per una visita al Santissimo, come si faceva sempre con il Papa prima e dopo ogni pasto. Una volta che il discorso era caduto su aspetti logistici concernenti il viaggio in preparazione, mentre ci avviavamo alla cappella, il Papa mi prese per il braccio e, ricordando di avermi conosciuto come teologo del Concilio, mi disse: «Povero padre Tucci, come è caduto in basso dalla teologia!».
Motivi di fondo
Il moltiplicarsi dei viaggi internazionali di Giovanni Paolo II ha destato meraviglia non solo per la quantità complessiva dei chilometri da lui percorsi (che a me toccava percorrere assieme ad alcuni validi collaboratori una o più volte prima di ripercorrerli assieme a lui), ma anche per la tenacia con la quale ha dimostrato di non volersi arrendere di fronte a nessuna difficoltà anche negli anni nei quali, con il sopraggiungere dell’età avanzata, le sue forze fisiche hanno cominciato a non essere più quelle di prima. L’attività di questo Papa è stata pervasa, dall’inizio alla fine del suo pontificato, da una sorta di ansia apostolica che non dipendeva soltanto da particolari e occasionali sollecitazioni, ma corrispondeva a un vero e proprio intento programmatico da lui abbracciato fin dal momento in cui la Provvidenza lo ha chiamato a svolgere il ministero di Pietro.
In un discorso rivolto alla Curia Romana il 28 giugno 1980, il Santo Padre così si esprimeva a questo proposito: «Tutti i viaggi-pellegrinaggi del Papa sono visite compiute alle singole Chiese locali e servono a dimostrare il posto che queste hanno nella dimensione universale della Chiesa e a sottolineare la peculiare attitudine che hanno nel costituire l’universalità della Chiesa. Come ho affermato l’altra volta, ogni viaggio del Papa è un autentico pellegrinaggio al santuario vivente del Popolo di Dio (17 ottobre 1979). In quest’ottica, il Papa viaggia, sostenuto, come Pietro, dalla preghiera di tutta la Chiesa (cfr At 12,5), per annunciare il Vangelo, per “confermare i fratelli” nella fede, per consolare la Chiesa, per incontrare l’uomo. Sono viaggi di fede, di preghiera, che hanno sempre, al cuore, la meditazione e la proclamazione della Parola di Dio, la celebrazione eucaristica, l’invocazione a Maria. Sono altrettante occasioni di catechesi itinerante, di annuncio evangelico nel prolungamento, a tutte le latitudini, del Vangelo e del Magistero apostolico dilatato alle odierne sfere planetarie. Sono viaggi di amore, di pace, di fratellanza universale […]. Tale, e soltanto tale, è il fine del Papa-pellegrino, sebbene taluni possano attribuirgli altre motivazioni […]. Tra i metodi di attuazione del Vaticano II, questo sembra essere fondamentale e particolarmente importante. È il metodo apostolico: è quello di Pietro, e ancor più quello di Paolo […]. I mezzi tecnici, offerti dalla nostra epoca, facilitano oggi questo metodo e in certo senso “costringono” a seguirlo»[1].
Su questa chiara intenzionalità programmatica il Papa è tornato periodicamente nei suoi incontri con il Collegio cardinalizio, con la Curia romana, con il Corpo diplomatico, rilevandone l’uno o l’altro aspetto. Ne ha parlato con parole semplici persino ai bambini in più di un caso nelle visite alle parrocchie di Roma e anche in qualche incontro con i piccoli nell’uno o l’altro dei suoi viaggi internazionali, per far capire anche a loro perché questo compito apostolico gli appariva essere diventato nella Chiesa postconciliare un «imperativo, avente valore di comandamento e di obbligo di coscienza»[2]. Perciò le visite pastorali alle nazioni sono state sentite dal Papa come un dovere del suo ministero papale che egli doveva compiere finché gli era umanamente possibile, nonostante l’esposizione alle critiche, di cui era ben consapevole.
Il dialogo ecumenico e quello interreligioso
Nel corso dei suoi viaggi apostolici, Giovanni Paolo II ha sempre dedicato particolare attenzione agli incontri con i rappresentanti di altre Chiese e Confessioni cristiane e di altre religioni, per promuovere l’ecumenismo e il dialogo interreligioso, che sono parte rilevante del programma apostolico del suo pontificato. In questi ultimi anni, quando al Santo Padre è stato finalmente concesso di visitare Paesi nei quali la maggioranza della popolazione si riconosce nella Chiesa ortodossa, mi ha sorpreso e commosso il modo rispettoso, senza alcuna traccia di arroganza, direi addirittura umile, con cui il Successore di Pietro si è comportato nei confronti dei Patriarchi e Metropoliti ortodossi, premuroso di rendere loro visita per primo nelle loro sedi, confidando di far cadere così i muri della diffidenza e di rendere più agevole e fruttuoso il dialogo ecumenico che tanto gli stava a cuore.
Ricordo a questo proposito che quando il Papa desiderava fare un viaggio in Libano, viaggio che allora (1994) non fu possibile realizzare, ero andato a visitare i tre Patriarchi non cattolici — due ortodossi e uno armeno — per dire loro che il Santo Padre sarebbe stato molto contento di intrattenersi con essi e quindi li invitavo a visitarlo in Nunziatura. Essi mi accolsero cordialmente e si dichiararono molto lieti di poter incontrare il Papa. Ricordo che quel viaggio di preparazione fu piuttosto difficile perché io e i miei collaboratori viaggiavamo in macchine blindate circondati da militari armati di mitra, i quali, quando si arrivava a destinazione, si schieravano intorno alle nostre macchine per garantirci la massima sicurezza. Tornato a Roma, il Papa mi fece chiamare. Pensavo che il programma della visita fosse ormai da considerarsi definitivo, ma lui, pur sapendo di procurarmi una fatica in più perché mi avrebbe obbligato a tornare in Libano, mi disse che era opportuno che io mi recassi di nuovo dai tre Patriarchi non cattolici per dire che lui avrebbe reso visita ad essi anziché invitare loro a rendergli visita nella sede della Nunziatura. «Ho pregato molto — mi disse —, ci ho pensato a lungo: il Papa deve esercitare il primato per fedeltà al Vangelo, però deve esercitare questo primato nella maniera più umile possibile. Non si tratta di una questione di prestigio personale, è solo fedeltà al Vangelo, ma il modo di farlo vedere agli ortodossi deve essere un modo umile. Devo essere io che vado a visitare loro, e non pretendere che siano loro a visitare me».
C’è poi da considerare il dialogo interreligioso promosso dal Papa in funzione della pace, perché per lui questo dialogo aveva lo scopo di promuovere la libertà di coscienza, il rispetto dei sentimenti religiosi di popolazioni che non sono state toccate dal messaggio del Vangelo e il desiderio, avvertito da molti, di convogliare tutte le religioni verso una riconciliazione tra i popoli, il perdono reciproco, e quindi la pace. Il Papa sapeva essere molto fermo nel denunciare che in qualche Paese islamico — che non nominava, ma lasciava intendere chiaramente che si trattava dell’Arabia Saudita — non è permesso avere neppure un solo luogo sacro aperto al culto cattolico, pur in presenza di almeno cinquecentomila cattolici (per lo più filippini, che svolgono i lavori più umili) in quella regione. Ha denunciato la situazione di persecuzione che infieriva nel Sud del Sudan contro cristiani e non cristiani. La sua voce di denuncia si è sempre levata in tutti quei Paesi dove ci sono situazioni difficili per la Chiesa, ma in genere per ogni uomo i cui diritti fondamentali vengono violati.
Durante il viaggio in Terra Santa mi sono accorto che sulle rive del Giordano, mentre il Papa si avvicinava al fiume, le personalità del seguito facevano ressa attorno a lui in modo che non fu possibile ai fotografi riprendere il Papa con il fiume bene in vista. Il giorno successivo ci trovavamo a Gerusalemme, al muro del pianto, e stava per ripetersi la stessa cosa. Ho chiesto con energia alle personalità del seguito di lasciare che il Papa si avvicinasse da solo al muro in modo che i fotografi potessero riprenderlo mentre deponeva il suo messaggio nella fessura del muro. Ricordo che, quando il Papa sostava a lungo in un luogo nominato nell’Antico o nel Nuovo Testamento, gli uomini della sicurezza israeliana mi chiedevano: «Cosa fa?». «Prega», rispondevo rendendomi conto che non riuscivano a capire il significato di quel verbo. Ricordo le lacrime della vedova di Rabin quando il Papa ricordò il sacrificio di suo marito, vittima di chi si opponeva al suo progetto di pace.
L’assillo per la giustizia e per la pace
Nel corso dei viaggi di Giovanni Paolo II si è rivelato in maniera oltremodo palese il suo assillo per la giustizia sociale, per la difesa dei diritti umani, per la partecipazione di tutti alla costruzione di un’autentica democrazia, per la solidarietà come correttivo indispensabile delle durezze dell’economia di mercato e del processo di globalizzazione, per il rispetto dei diritti delle nazioni, per la riconciliazione, per la pace. In tale contesto vanno considerati gli inevitabili atti protocollari, nei quali Giovanni Paolo II ha detto ai responsabili delle sorti dei popoli (molti dei quali erano presenti alle sue esequie) sacrosante verità e ha formulato critiche e incitamenti che nessun altro dei grandi della terra avrebbe osato esprimere in una visita di Stato. Anche questo proposito era già presente nel suo animo fin dagli inizi del suo pontificato, quando nel discorso al Collegio cardinalizio del 22 dicembre 1980 osservava, a proposito dei suoi viaggi, che «i contatti ad alto livello, che hanno luogo in quelle occasioni, sono altrettanti punti fermi che la Chiesa pone nel suo cammino in mezzo agli uomini, approfittando della possibilità che le viene offerta di trattare con i responsabili delle sorti dei popoli […]. Come spesso ho sottolineato anche durante gli incontri con le autorità, è nell’interesse di coloro che gestiscono il potere che la società sia giusta, affinché, distaccandosi dal totalitarismo e realizzando un’autentica democrazia, essa divenga sempre più giusta, sulla scia di ragionevoli riforme sociali. E così facendo si possano evitare rivolte, violenze, spargimenti di sangue che costano tante sofferenze»[3].
Si potrebbero dire molte cose a proposito del coraggio dimostrato da Giovanni Paolo II nel parlare con i capi di Stato. Basta pensare all’incontro con il presidente Pinochet, che condusse il Papa al balcone del palazzo presidenziale mentre nella piazza sottostante era stata inscenata, a cura del Governo, una manifestazione per acclamare il Papa e mettere in bella luce la figura del dittatore cileno. Quell’apparizione al balcone non era prevista, tanto che non c’era neppure l’arcivescovo di Santiago accanto al Papa. So che il Papa, nell’incontro privato con Pinochet, gli suggerì che era tempo di riconsegnare il potere alle autorità civili. Poi prese un’iniziativa che non piacque per niente alla Giunta militare — e neanche ad alcuni settori cattolici favorevoli al regime — accettando di incontrare in un luogo molto vicino alla Nunziatura tutti i leader dei vari partiti, che allora non avevano alcuna legittimità, e rivolse loro un discorso su come andava ricostruito il Paese, sulla riconciliazione da favorire, sulla promozione dei diritti umani, sul rispetto delle minoranze.
Quando, all’inizio del pontificato, scelse il Messico come meta del suo primo viaggio internazionale, il Papa sapeva che si trattava di un Paese laico, anzi laicista e perfino anticlericale, almeno nella sfera governativa. A quei tempi in Messico i sacerdoti non potevano indossare alcun abito religioso, e anche a me consigliarono di non allontanarmi dal seguito papale, altrimenti, se mi avessero sorpreso vestito con il collare romano, avrei rischiato una multa. Anche se le autorità avevano autorizzato la visita del Papa, ci voleva coraggio per affrontare una situazione così difficile in quel momento, tanto che non ci fu nessun incontro ufficiale con il Presidente della Repubblica, il quale finse di trovarsi casualmente nei pressi dell’aeroporto e si limitò a stringere la mano al Papa. Ci volle coraggio per andare in Polonia quando c’era ancora il regime comunista, ci volle coraggio per andare in Nicaragua quando c’era il regime sandinista.
A proposito del Nicaragua, io stesso, dopo aver fatto ben due visite al Paese, mi ero convinto che si trattava di un viaggio molto rischioso perché una parte del clero — soprattutto tra i religiosi — era schierato con i sandinisti a favore di una Chiesa popolare diversa e contrapposta alla Chiesa gerarchica. Il Papa conosceva questa situazione molto difficile e sapeva che il Governo naturalmente appoggiava la «Iglesia popular», ma mi disse: «Dobbiamo andare, anche se non sarà un gran successo e incontrerò molte difficoltà. Devo andare perché questa Chiesa ha bisogno di essere rinforzata adesso che vive un momento molto critico. Speriamo che in seguito vengano tempi migliori e che il Papa sarà accolto meglio, ma ci devo andare anche adesso».
Quando si preparò quel viaggio, che comprendeva diversi Paesi di lingua spagnola dell’America Centrale, alcuni vescovi latinoamericani suggerivano al Papa di non recarsi presso la tomba di mons. Romero, da essi ritenuto una figura troppo compromessa politicamente. Raramente ho visto il Papa reagire con tanta forza: «No. Il Papa deve andare. Si tratta di un vescovo che è stato colpito proprio al cuore del suo ministero pastorale». Il successore di Romero, mons. Rivera y Damas, quando giungemmo sul posto, davanti alla cattedrale dove si trova la tomba di Romero, disse che il Governo aveva vietato la visita — e infatti la porta era chiusa —, ma il Papa fu irremovibile. Chiese che si cercasse la chiave per poter aprire. Aspettammo un po’. Nella piazza non c’era anima viva perché era stata resa deserta dalla polizia. Quando alla fine potemmo entrare, il Papa pregò a lungo sulla tomba di Romero e disse poi alcune parole molto belle sul ministero di questo vescovo che è stato martirizzato mentre celebrava la messa.
Gesti coraggiosi
Quando i vescovi della Bosnia nel 1994 lo invitarono a Sarajevo, il Papa era disposto ad accettare, ma si sparava ancora sulle montagne vicine e allora dovetti andare a vedere sul posto per controllare la situazione, perché mi convinsi che, se non ci fossi andato di persona, egli non avrebbe mai creduto alle mie ragioni per dissuaderlo e forse avrebbe pensato che ero io ad avere paura. Sono andato a Sarajevo e, assieme ai miei collaboratori, ho dovuto indossare il giubbotto antiproiettile e il casco, come facevano tutti i militari. A quell’epoca l’aeroporto era controllato dagli inglesi, in città c’erano i francesi, ad ogni incrocio c’erano carri armati con la scritta ONU. I militari erano favorevoli alla visita del Papa, perché portava un po’ di speranza a quelle povere popolazioni, ma la gente aveva paura, tutti chinavano il capo e attraversavano velocemente la strada ai crocicchi perché c’era il pericolo reale di essere colpiti dai cecchini che sparavano dalle colline sovrastanti. Il Papa voleva andare, ma chiedeva la garanzia che nessuno sarebbe stato ammazzato o ferito durante la sua visita a causa di essa. Gli spiegai che questo era impossibile prevederlo perché ci sarebbe stato pericolo sia nel caso che il Papa avesse celebrato la messa nella cattedrale, sia nel caso che lo avesse fatto nello stadio. Alla fine egli si convinse; poi, grazie a Dio, siamo riusciti ad andarci nel 1997 in un periodo più tranquillo e tutto è andato bene.
Ricordo la visita, nel 1997, a Timor Est, che oggi è uno Stato indipendente. Il Papa si impose con coraggio al Governo indonesiano che non voleva la visita di questa provincia, che lo stesso Governo si era annessa con la forza al momento della «rivoluzione dei garofani» avvenuta in Portogallo. L’Indonesia aveva preso possesso della zona che si trovava nella parte orientale dell’isola — Timor Est — dove c’è una grande maggioranza di cattolici, e il Papa, di fronte alle resistenze del Governo, minacciò di protestare pubblicamente se non gli avessero consentito la visita. Gli indipendentisti e anche il vescovo volevano invece che il Papa baciasse la terra come faceva allora inginocchiandosi all’arrivo in tutti i Paesi indipendenti.
Giovanni Paolo II non voleva arrivare a tanto, perché non intendeva entrare nella questione dell’indipendenza. A lui premeva piuttosto che il popolo godesse di un’ampia autonomia culturale e religiosa, e che fosse rispettata la lingua e la religione della maggioranza della popolazione di Timor Est, che è cattolica, mentre l’Indonesia è un Paese a grande maggioranza islamica. Cercammo un compromesso: il vescovo si sarebbe presentato ai piedi della scaletta dell’aereo con in mano un crocifisso che il Papa avrebbe baciato stando in piedi, come si fa quando un vescovo prende possesso della diocesi o un sacerdote prende possesso della parrocchia. Quando arrivammo, io scesi subito dall’aereo e vidi che il vescovo non aveva il crocifisso: seppi da lui che gli era stato sequestrato. Allora il Papa che fa? Quando arriviamo nel luogo della messa, mi dice: «Non mi hanno fatto baciare il crocifisso all’aeroporto. Prenda il crocifisso che c’è in sacrestia e lo metta ai piedi dell’altare di fronte al popolo». Misi il crocifisso per terra su un cuscino perché avevo capito che il Papa voleva inginocchiarsi e baciare il crocifisso, davanti a tutti, prima di accedere all’altare, come effettivamente fece.
Visitando il Sudan, il Papa avrebbe voluto spingersi nella parte meridionale del Paese, dove c’era la guerra civile, ma non glielo hanno permesso. Facemmo scalo nella capitale Khartoum, dove c’era un milione di profughi fuggiti dal Sud, una buona parte dei quali è cattolica. Il Papa ebbe un’accoglienza stupenda. Le autorità islamiche non riuscivano a frenare l’entusiasmo di quella popolazione, e fu commovente anche l’accoglienza da parte del discreto numero di cristiani ortodossi presenti in Sudan. Alla sera, dopo la messa (che fu bellissima) il Papa ebbe un incontro piuttosto lungo con il Governo, durante il quale espose, con gentilezza ma anche con fermezza, il suo pensiero in materia di libertà religiosa.
Il Papa ha voluto visitare anche la Grecia, pur sapendo che l’accoglienza non sarebbe stata molto cordiale, perché il popolo greco è di religione ortodossa e non nutre sentimenti amichevoli nei confronti di noi «latini», come ebbi modo di constatare quando andai ad Atene per curare la preparazione del viaggio. La visita in Grecia dimostra che il Papa non andava solamente alla ricerca del «bagno di folla», perché si recava anche in Paesi dove sapeva di non poter ricevere un’accoglienza particolarmente cordiale.
Richieste di perdono
Durante il viaggio in Senegal, mi ha fatto molta impressione la richiesta di perdono sul problema della schiavitù. Il Papa sapeva benissimo che la schiavitù non è un peccato solamente dei bianchi, ma anche dei neri, perché la schiavitù c’era già prima del periodo della cosiddetta «tratta», soprattutto nella parte orientale dell’Africa, e c’è sempre stato un collegamento tra chi comprava e chi vendeva schiavi. Neri erano per lo più i razziatori che nell’interno del continente sceglievano i soggetti fisicamente più forti per rivenderli ai padroni bianchi che li portavano a lavorare nelle Americhe. Quando arrivammo nell’isola di Goré, il Papa non aveva un testo. Non era previsto un suo discorso, ma quello che ha improvvisato, in francese, fu molto bello. Si vedeva il Papa che parlava lentamente, scegliendo le parole a mano a mano che maturava il suo pensiero. Fu un discorso stupendo che ancora oggi, se letto o, meglio ancora, ascoltato dalla sua voce che è stata registrata, fa una grande impressione.
Le richieste di perdono del Papa hanno avuto una notevole risonanza anche nel campo ecumenico. Egli ha chiesto perdono ai luterani e ai calvinisti. Ricordo che in Ungheria, in una città a prevalente popolazione calvinista, andammo a visitare la loro cattedrale e poi fuori, dato che c’era un monumento che commemorava l’espulsione dei Pastori calvinisti al tempo in cui il Paese tornò sotto il dominio dell’Impero austro-ungarico, che impose di nuovo la religione cattolica, chiesi al Papa se voleva deporvi un mazzo di fiori, cosa che fece molto volentieri.
Anche in Slovacchia, dopo aver visitato la chiesa cattolica di rito orientale, mi chiese di condurlo a rendere omaggio a un monumento — ne conosceva l’esistenza — che ricordava le persecuzioni inflitte dai cattolici ai protestanti. Dovetti perciò mettermi alla ricerca del Pastore che era un luterano, e che per fortuna aveva assistito alla messa del Papa, e lo pregai di precederci perché il Papa aveva espresso il desiderio di dire alcune parole di scusa, davanti a quel monumento, per quanto i cattolici avevano fatto a danno dei protestanti in quel periodo. Al contrario, quando in Cecoslovacchia — prima della divisione tra Repubblica Ceca e Slovacchia — il Papa canonizzò tre santi martirizzati dai luterani, nessuna delle autorità protestanti chiese scusa al Papa per quello che i protestanti avevano fatto in quel tempo ai cattolici. Il Papa invece volle chiedere scusa ai protestanti per quanto era accaduto in quel periodo di guerre politico-religiose.
Come non ricordare con commozione la tenerezza di Giovanni Paolo II per i malati, soprattutto se bambini, per i disabili, per gli anziani; qualunque fosse il loro numero, voleva salutarli a uno a uno, li accarezzava, cercava di ascoltarli e di confortarli, diceva loro che contava sulle loro preghiere e sull’offerta delle loro sofferenze. C’era in questi incontri un’intensa partecipazione che mostrava quanto vivamente egli vedesse nei sofferenti il volto di Cristo crocifisso. Fin dai primi viaggi del Papa mi fece una profonda impressione questo suo atteggiamento: sembrava stare quasi in venerazione di fronte a ogni infermo. La cosa è diventata per me ancora più coinvolgente quando ho visto il modo nel quale il Papa stesso portava in sé i segni della sofferenza.
Un uomo unito con il Signore
Tra le esperienze personali che ho potuto fare nei molti anni nei quali sono stato incaricato di organizzare i viaggi internazionali di Giovanni Paolo II, mi ha colpito in modo particolare il posto centrale che occupava nella sua vita la preghiera: essa precedeva, accompagnava e concludeva l’intera sua giornata di pellegrino ai santuari del popolo di Dio. Vederlo completamente assorto in prolungata preghiera al primo mattino nella cappella delle Nunziature che ci ospitavano, oppure davanti al tabernacolo nelle varie chiese visitate, vederlo sgranare la corona del Rosario in auto, in aereo o in elicottero resta per me un ricordo indimenticabile e stimolante. Da questa costante e intima unione con il Signore e con la Madre di Dio egli attingeva il suo coraggio apostolico, la sua straordinaria preoccupazione per l’uomo, per la pace tra le nazioni, l’energia interiore che lo rendeva capace di vivere, anche negli anni dolorosi della malattia, entro il disegno di Dio. Questa dimensione intima, che tuttavia traspare nei suoi gesti e nella sua parola e che lo rende testimone credibile di una realtà che trascende la sua persona e il suo stesso mandato istituzionale, ha commosso il cuore dei credenti di tutte le età ed è stata avvertita anche da coloro che lo accostavano al di fuori di una prospettiva di fede, ricevendone un’impressione di autenticità.
Una volta, mentre stavo vicino a lui per motivi di servizio — eravamo sull’elicottero che ci trasportava da Gerusalemme in Galilea ed era un venerdì —, notai che il Papa non guardava dal finestrino ma teneva in mano un libriccino un po’ logoro, privo della copertina. Ne leggeva una pagina e si raccoglieva in preghiera; poi leggeva un’altra pagina e di nuovo pregava; sbirciando un po’ meglio, mi accorsi che stava facendo la Via Crucis, perché quel giorno, dovendo affrontare un programma molto impegnativo, temeva di non poterla fare in cappella come faceva sempre, anche durante i viaggi, la sera di ogni venerdì. Ricordo che una sera, dopo una giornata veramente massacrante, il Papa si ritirò nel suo appartamento e seppi che, subito dopo, si era recato nella cappella per celebrare una seconda messa dopo quella che aveva celebrato con il popolo nella mattina, perché ricorreva l’anniversario della sua elezione a Papa. Faceva così ogni anno.
A volte mi accadeva di celebrare la messa nella cappella dove lui entrava per pregare. Durante i viaggi celebravo di solito molto presto al mattino perché dovevo recarmi nel luogo dove si sarebbero svolte le manifestazioni molto tempo prima che vi arrivasse il Papa. Cercavo di disturbarlo il meno possibile, ma mi è stato detto che avrei potuto celebrare la messa quando credevo, perché questo non lo disturbava affatto. Ho un ricordo molto vivo dello sguardo che rivolgeva all’ostia al momento della consacrazione.
La dimensione spirituale della sua vita è diventata ancora più manifesta nel corso della malattia che ha affrontato con forza d’animo giungendo perfino a esprimersi, quando la sofferenza gli consentiva una tregua, con una punta di autoironia. Una volta mi disse: «Ma lei crede che non mi veda in televisione come sono conciato?». Un’altra volta, in America Latina, stavo dietro al Papa che camminava accanto a un cardinale, il quale, avendo subìto un incidente, si sosteneva con il bastone. Ho sentito il Papa che sorridendo diceva: «Cara Eminenza, siamo tutti e due bastonati!». Intendeva dire: «Usiamo il bastone tutti e due», ma si poteva anche capire: «Tutti e due siamo messi male». Ora che il Signore lo ha chiamato, tra la quantità di insegnamenti che ha lasciato dietro di sé, a chi ha avuto il singolare privilegio di seguirlo da vicino rimane soprattutto l’esempio di un uomo che, spinto dalla forza che dà la fede in Dio, non si è mai fermato davanti a nessun ostacolo, affrontando con coraggio anche la sofferenza e la morte.
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[1] Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1980, 1.886 s.
[2] Cfr A. Frossard, N’ayez pas peur. Dialogue avec Jean-Paul II, Paris, Laffont, 1982, 290-293.
[3] Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. III/2, 1980, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 1981, 1.760.
Quaderno 3717 – pag. 245 – 257 – Anno 2005 – Volume II – 7 Maggio 2005
https://www.laciviltacattolica.it/articolo/i-viaggi-internazionali