Caro direttore,
chi non capisce la luce che c’è negli occhi di Silvia nella foto dove abbraccia i bimbi del Kenya, per i quali ha corso senza risparmio rischi mortali, non può aver capito fino in fondo cosa c’è veramente in ballo quando un giovane o una giovane parte dalle sue comodità per andare dove il bisogno chiama solidarietà, in chi ha scoperto dentro di sé l’energia e le risorse interiori per accogliere quell’invito. Ho visto anch’io quella stessa luce negli occhi di nostro figlio Daniele nel 2012, volontario civile internazionale Caritas nella periferia di Goiania, capitale brasiliana, dello stato del Goias, a Jardim Das Oliveiras dove ha trovato misteriosamente il massimo della sua felicità nel suo donarsi quotidiano agli altri nel servizio di animazione dei giovani e bambini insieme all’appuntamento drammatico con il passaggio all’altra vita in un incidente sul lavoro successo in un piccolo cantiere di restauro di una chiesetta. Capisco bene invece la gioia irrefrenabile e sconvolgente del papà di Silvia, ma al di là della differenza dell’epilogo che oggi mi ha fatto piangere letteralmente di gioia, mi inorridisce la grettezza e la povertà umana di chi polemizza in modo tanto sterile sul senso altissimo di queste storie di servizio. In una Mirandola provata dal terremoto, durante una conversazione moderata dal suo collega Paolo Lambruschi, profondamente coinvolto, proprio la mattina del giorno in cui papa Francesco fu eletto al soglio di Pietro, davanti a 450 giovani volontari italiani riuniti dal ‘Tavolo ecclesiale del servizio civile’ che quel giorno testimoniavano la ricchezza di tante storie ordinarie di servizio, ho sentito vibrare la stessa luce nei loro volti, e ho riconosciuto in essa la stessa luce che avevo visto negli occhi di Daniele nei collegamenti via Skype, ritrovandolo diversamente vivente e sfolgorante nella testimonianza di dono di sé agli altri prorompente dalla sua vita. È anche da quel momento che ho rafforzato la mia convinzione che la vita di mio figlio non era stata buttata via in un banale incidente forse dovuto anche alla povertà di mezzi, ma che la scintilla di felicità e di amore scoccata tra lui e i suoi amici brasiliani fosse la motivazione sufficiente per la quale lui non aveva risparmiato nulla di sé, che dava un significato altissimo alla sua esistenza, del quale ora anch’io sono umile seguace. Forse dovremmo imparare tutti a fare tesoro di queste lezioni di vita, e di queste storie che non riguardano solo singole le famiglie coinvolte, ma intere comunità, dovremmo saperne essere più orgogliosi anche come Paese, istituzioni in testa. Federico Ghillani Parma
Sì, caro amico, dovremmo saper tutti quanto vale la vita donata da questi giovani uomini e donne, da Daniele e dai suoi fratelli e dalla sue sorelle. Dovremmo farne tesoro. E dovremmo essere sempre grati e orgogliosi di questi volontari e queste volontarie, ai quali uomini e donne di ogni età, consacrati e laici, hanno aperto la via, la testa e il cuore nel servizio all’umanità, nella seminagione del bene e di una Parola che è vita. Sembra retorica da anime belle, e ce lo rinfacciano spesso. Anche in malo modo. Il sacrificio luminoso del suo e nostro Daniele e il dolore e la consapevolezza che ha generato, il sollievo e la gioia pura che abbiamo condiviso per il ritorno a casa, libera, di Silvia Romano hanno un’eloquenza buona, che le sue parole rendono concreta. È questa, caro professor Ghillani, la giusta risposta a chi male pensa e male dice.
Marco Tarquinio
12 maggio 2020
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/grati-e-orgogliosi-di-chi-dona-la-vita-la-giusta-risposta-a-chi-male-dice