Caro direttore,
era prevedibile che la legge 194 in vigore esattamente da 42 anni (22 maggio 1978) portasse ai risultati che sono oggi sotto gli occhi di tutti, almeno di coloro che non vogliono chiuderli. La spinta per la banalizzazione sociale e culturale dell’aborto, addirittura pretendendone la qualifica di “diritto umano fondamentale” parte da lì. La pressione per rendere usufruibile e accettato senza limiti e problemi l’aborto farmacologico e chimico, attualmente sfruttando la disgrazia della pandemia, si annida già in quelle disposizioni, nonostante sia scritto che «l’aborto non deve essere utilizzato come mezzo di controllo delle nascite». La legge, infatti, finge di attuare la decisione costituzionale n. 27 del 1975 che aprì la strada alla legalizzazione dell’aborto. Questa sentenza, però, riconobbe il diritto alla vita del concepito facendolo rientrare tra i diritti dell’uomo e ammise l’aborto solo in caso di necessità, cioè a seguito di un accertamento medico sulla gravità di un pericolo per la salute della madre. Invece, la 194 nei primi tre mesi di gravidanza non prevede nessun accertamento medico sulla salute della madre.
Delle tre “anime” della legge – abortismo radicale, collettivizzante e umanitario – è la prima a prevalere nell’interpretazione e nell’applicazione (in ogni caso nessuna delle tre prende in considerazione il fatto che in gioco c’è una reale e concreta vita umana), perché le stesse parti della legge considerate da alcuni “buone” sono in realtà contaminate da un’ambiguità tale da non avere la forza di determinare una inversione di tendenza a favore della vita nascente e di una reale tutela sociale della maternità. Non rassicura la dichiarata tutela della vita sin dal suo inizio – collocata al terzo posto dopo il diritto alla procreazione cosciente e responsabile e dopo la tutela sociale della maternità – poiché non è data la ragione esplicativa della tutela (si tutelano anche le cose) e non si specifica qual è il momento dell’inizio. Ben altro sarebbe stato mettere al primo posto la tutela il diritto alla vita del concepito (la sua dignità, la sua natura di essere umano), ma è proprio questo ciò che non si voleva e non si vuole riconoscere.
Equivoca è anche la disciplina dei consultori familiari, descritti come un’alternativa all’aborto, ma poi collegati con l’aborto nella fase preparatoria, tanto che si pretende di escludere dai consultori gli obiettori di coscienza e addirittura di trasformarne alcuni in ambulatori dove effettuare l’aborto chimico. In ogni caso il ricorso al consultorio può essere comunque evitato rivolgendosi al medico di fiducia. Inquietudine? Ipocrisia? È comunque quanto basta a giustificare la qualifica di «integralmente iniqua» che Giorgio La Pira rivolse alla 194.
Già queste brevi considerazioni dovrebbero portare a un serio e profondo ripensamento della legge alla luce di una sempre maggiore consapevolezza scientifica e razionale circa la piena umanità di ogni figlio concepito, della collaudata esperienza dei Centri di aiuto alla vita che conoscono la gioia della libertà della donna sottratta ai condizionamenti che l’avrebbero portata all’aborto, di una riflessione attenta sul ruolo della donna nella difesa della vita nascente. L’attuale contesto politico sembra lontanissimo dal pensare a una cosa del genere.
E allora? In attesa di tempi migliori – da costruire con la responsabilità di tutti – ricordiamoci che “più della legge, poté l’amore”. L’obiettivo è costruire la civiltà della verità e dell’amore e non dobbiamo arrenderci perché ci sono leggi inique che prima o poi crolleranno sotto il peso della loro iniquità. Il primo atto che è insieme di verità e amore è riconoscere il piccolissimo figlio dell’uomo e della donna come «uno di noi». Esagerati? Integralisti? No, semplicemente umani.
Marina Casini Bandini
Presidente del Movimento per la Vita italiano
22 maggio 2020