Cosa insegna Gesù nei Vangeli riguardo alla nostra morte? Silvia.
I Vangeli non forniscono informazioni alle nostre curiosità sulla morte; motivano unicamente che Gesù è il Signore della vita e della morte come evidenziato nei tre miracoli di risurrezione: il figlio della vedova di Nain (cfr Lc. 7,11-17), la figlia di Giairo (cfr Lc. 8,50-56) e Lazzaro (cfr Gv. 11).
Assistendo allo spegnersi di una vita immediatamente pensiamo alla morte e agli interrogativi che essa pone, dato che ognuno desidererebbe conoscere che cosa incontrerà terminata l’avventura umana. Ma oggi, dialogare sulla morte, cioè sull’unico evento certo al quale nessuno sfuggirà, è difficoltoso ed è un argomento da evitare per non essere definiti, come avvertiva V. Messori, dei «maleducati sociali» (cfr Scommessa sulla morte, SEI 1992). La morte, da avvenimento gestito nella famiglia e nel parentado dove era inquadrato come un elemento antropologico naturale, e di conseguenza ci si raccoglieva attorno al letto del moribondo per un estremo doloroso abbraccio, si è mutata in un «episodio anonimo» da relegare, preferibilmente in ospedale, per isolare il morente dalla quotidianità, e di conseguenza, sono stati eliminati la maggioranza dei simboli esteriori. Scriveva P. Ariés: «Al giorno d’oggi non è normale essere morti… Essere morti è un’anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile» (Storia della morte in occidente dal Medioevo ai giorni nostri, Rizzoli 1978, 190). Così, all’uomo post moderno, non è più concessa l’ esperienza di una morte umana, dato che la cultura contemporanea caratterizzata dalla dissociazione della vita dalla morte che ostacola e altera la sua efficienza, la reputa un’insopportabile e anomala incongruenza sfuggendo al controllo della scienza. Anche quando si omaggia una salma si esprimono attestati di stima per il defunto, ma pochi si interrogano sul suo futuro. Queste moderne modalità complicano ulteriormente l’evento perché meditare sulla morte provoca un’immensa ansietà; di conseguenza, la si evita, defraudandola di qualsiasi significato. Ammoniva il filosofo B. Pascal: «gli uomini, non avendo potuto liberarsi dalla morte, dalla miseria, dall’ignoranza, hanno deciso, per essere felici, di non pensarci più» (Pensieri, 221).
Nel corso della storia teorie filosofiche o ideologie hanno tentato di attribuire alla morte dei significati ma con scarso successo; sono state conseguite unicamente delle consolazioni fugaci (dottrina della reincarnazione, interpretazione degli astri, parapsicologia…), oppure sull’esempio di Epicuro, la morte, è stata presentata come «fatto naturale». Solo nel cristianesimo riscontriamo aspetti di verità e di speranza duratura. La fede, autorizza il credente, a giustificare la morte come parte integrante di un cammino infinitamente più vasto; essa, non annulla la persona, ma la trasfigura mediante il perdurare dell’esistenza in tempi e in spazi diversi dagli attuali. Dunque, se la vita prosegue anche dopo la morte, dobbiamo costruire l’eternità giorno dopo giorno, amando e vivendo pienamente ogni momento. Questa convinzione ci invita ad organizzare saggiamente la quotidianità sostenuta da valori, sentimenti e progetti che oltrepassano l’aspetto terreno, compiendo esperienze arricchenti e rinunciando a quelle banali e negative. «Il problema», ricordava il cardinale Biffi «è molto interessante, drammatico e inevitabile, perché i casi sono due: con la morte o si va a finire nel niente o si va a finire nella vita eterna. Le altre soluzioni sono forzatamente provvisorie. Io so già che tra qualche anno o andrò a finire nel niente o andrò a finire nella vita eterna. Ma se andrò a finire nel niente, io vivo già adesso per niente; cioè, se l’approdo dell’esistenza è il niente, anche la sostanza dell’esistenza è il niente, e questa è un’assurdità. Che qualcosa debba venire dal niente solo per tornare al niente è una contraddizione» (L’Aldilà, LDC 1998, 5).
L’osservazione del cardinale Biffi ci mostra uno stretto legame tra vita e morte, perché il Signore Gesù ci ha indicato con la sua risurrezione che dopo la morte, l’esistenza di ogni uomo proseguirà nell’eternità in comunione con Dio. In Cristo, rammentava san Paolo, «tutti riceveranno la vita» (1Cor. 15,22), essendo la «primizia di coloro che sono morti» (1Cor. 15,20), cioè la primizia dei risorti. Questa verità, inoltre, è il fondamento del cristianesimo come affermava l’apostolo delle genti: «Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana la nostra fede» (Cor. 15,14); eliminato l’evento della risurrezione, la fede risulterebbe unicamente una tragica illusione. Da ultimo ricordo che un evento, quello della morte, si contrappone ad un altro avvenimento, quello della risurrezione. Il filosofo russo J. Solov’ev rammentava che la morte è «un fatto», e nei confronti dei fatti, nessuna filosofia, ideologia ed illusione estetica resiste. Ad un fatto, unicamente un altro fatto, può opporsi con successo. Il cristiano possiede nella Risurrezione del Signore Gesù la realtà che lo salvaguardia dalla circostanza della morte che rimane, pur sempre, un mistero ed un passaggio doloroso. Per questo, la morte, è spesso circondata dal timore. Cristo, incarnandosi, ha sperimentato l’autentica esperienza della morte; come ha reagito? Nel Getsemani ebbe paura (cfr Lc. 22,40-46), e pianse al sepolcro dell’amico Lazzaro (cfr. Gv. 11,33), ben consapevole che lo avrebbe risuscitato. Questo ci indica che il Cristianesimo, pur offrendoci dei chiarimenti sulla morte, ne legittima il timore ma non la disperazione.
La nascita, la crescita e la morte formano un trinomio inscindibile, essendo momenti costitutivi dell’uomo che deve acquisire sia l’ars vivendi che l’ars moriendi. Come? Suggeriva padre D. M. Turoldo: «Guardare la vita dal punto di osservazione della morte, dà un aiuto straordinario a vivere bene. Sei angustiato da problemi e difficoltà? Portati avanti, collocati al punto giusto: guarda queste cose dal letto di morte. Come vorresti allora aver agito? Quale importanza daresti a queste cose? Fai così e sarai salvo. Hai un contrasto con qualcuno? Guarda la cosa dal letto di morte. Cosa vorresti aver fatto allora: aver vinto o esserti umiliato? Aver prevalso o aver perdonato?» (Il dramma è Dio: il divino, la fede e la poesia, Rizzoli 2002, 67). Esclusivamente così ci riconcilieremo con la nostra morte, con quella che san Francesco d’Assisi definiva «sorella», ed accompagneremo efficacemente anche il prossimo alla morte, atto elemento rilevante nella professione sanitaria.
don Gian Maria Comolli