Dopo la somministrazione del farmaco, la donna dovrà restare all’interno del presidio soltanto fino a una prima valutazione medica, per poi tornare in ambulatorio circa 48 ore dopo e assumere il misoprostolo per l’espulsione del feto. In questo modo ci si distacca sempre più dai principi e dai parametri di sicurezza posti dalla legge 194 del 1978, e la donna, dopo l’assunzione della pastiglia, viene lasciata sola, in attesa che il farmaco faccia il suo effetto.
Secondo l’ultima relazione del ministro della Salute sull’attuazione della legge 194 appena presentata al Parlamento con i dati del 2018, l’uso dell’aborto farmacologico è in continua crescita, pur con differenze enormi tra le Regioni: a livello nazionale, il mifepristone (cioè la Ru486) con successiva somministrazione di prostaglandine (per espellere il feto) è stato adoperato nel 20,8% dei casi, rispetto al 17,8% del 2017 e al 12,9% del 2014. Considerando anche i casi per i quali è stato utilizzato uno solo dei due farmaci, la percentuale sale al 24,2% del totale degli aborti: in valori assoluti, circa 18.500 casi in un anno. Nelle linee di indirizzo del Ministero della Salute pubblicate nel 2010 fu stabilita la necessità del regime di ricovero ordinario per tre giorni «per un’attenta sorveglianza sanitaria, in modo da ricevere un’assistenza immediata se si verifica un’emorragia importante».
Per evitare che l’aborto chimico possa essere sottovalutato nelle sue conseguenze, il documento insisté molto sull’importanza di «una corretta informazione»: si deve tenere in considerazione infatti che «l’efficacia è del 93– 95%, e che quindi, nel 5% circa dei casi, è necessario sottoporsi comunque a un intervento chirurgico per completare l’aborto o fermare un’emorragia importante in atto».
E anche se, secondo la raccolta dati effettuata nel 2010–11 dal Ministero, era emerso che molte donne (76%) avevano richiesto di andarsene a casa dopo la somministrazione di mifepristone o prima dell’espulsione completa del feto, la commissione aveva chiaramente affermato che è «fortemente sconsigliata la dimissione volontaria contro il parere dei medici prima del completamento di tutta la procedura perché in tal caso l’aborto potrebbe avvenire fuori dall’ospedale e comportare rischi anche seri per la salute della donna».
Nel corso degli anni però le Regioni, in autonomia, hanno adottato nuovi protocolli, discostandosi molto dalle indicazioni ministeriali che erano state definite dagli esperti e poi confermate dal Consiglio superiore di sanità. Fin dall’inizio l’Emila Romagna, la Toscana e la Liguria hanno permesso l’aborto farmacologico in regime di day hospital, poi si sono aggiunte altre Regioni, come il Lazio nel 2014, la Puglia nel 2016, il Piemonte nel 2018 e la Lombardia nel 2019.
La nuova presidente della Regione Umbria, Donatella Tesei, ha invece deciso pochi giorni fa di tornare a rendere obbligatorio il ricovero, abrogando quanto previsto dalla giunta precedente. Una disomogeneità territoriale che crea confusione e che lo stesso governo critica: «La tipologia di intervento e la durata della degenza – si legge ancora nella relazione al Parlamento sulla legge 194 – evidenziano una variabilità regionale che suggerisce la necessità di un approfondimento da parte degli organi regionali, anche attraverso un confronto interregionale, per capirne le motivazioni e uniformare i protocolli terapeutici, al fine di assicurare un’offerta efficiente e di qualità».
In generale, al Nord e nel Centro Italia il ricorso all’aborto chimico è più diffuso: in Piemonte circa il 47% delle interruzioni di gravidanza avviene in modalità farmacologica (2.000 all’ospedale Sant’anna di Torino ), in Liguria poco più del 40% e poi Emilia Romagna, Toscana, Puglia e Lazio. La Toscana è stata la prima Regione ad adottare la Ru486 in via sperimentale già nel 2005 facendola arrivare dall’estero.
Con la decisione di somministrare i farmaci abortivi anche in ambulatorio, sebbene il governatore Enrico Rossi parli di «passo avanti», in realtà ci si allontana ulteriormente dalle raccomandazioni ministeriali, basate su tre pareri del Consiglio superiore di sanità, di composizione diversa e durante tre diverse legislature. «Sono farmaci a elevato rischio – spiega Emanuela Lulli, ginecologa e membro del consiglio esecutivo nazionale di Scienza & Vita –: le emorragie e le infezioni che ne possono scaturire non sono affrontabili in casa. In questo modo si prova a ottimizzare il percorso, facendo sembrare leggero qualcosa che ha ripercussioni importanti dal punto di vista fisico e psicologico. Come medico e come donna che incontra altre donne in quei momenti difficili, sono convinta che questo sia solo un modo per aumentare la loro tragica solitudine».
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