È un tradizionale atteggiamento degli italiani la propensione a non fasciarsi la testa prima di cadere, ed a dirsi «quando un evento verrà, cercheremo di fronteggiarlo. Vedremo di cavarcela». Sta avvenendo così anche per i pericoli che per molti incombono nel prossimo autunno, sia in materia di eventuale ritorno dell’epidemia, sia in materia di probabile crisi dell’economia e dell’occupazione. Ci sembrano pericoli lontani e preferiamo non pensarci adesso; prima godiamoci l’aria del mare e dei monti, dopo tanta reclusione nelle case, nelle paure, nelle mascherine.
Rischiamo come sempre la impreparazione, vizio antico del sistema. Ed in effetti tutta l’avventura pandemica degli ultimi mesi è stata costellata da tante ammissioni di colpa: il mondo della sanità ha dichiarato di essersi trovato impreparato agli eventi; e così il mondo della scuola, il mondo dei trasporti urbani e locali, il mondo dei professionisti e dei commercianti, il mondo della gerarchia ecclesiastica, il mondo delle amministrazioni locali. Un mondo di impreparati, che ha quindi vissuto passivamente le articolate ricadute dell’epidemia; ed a poco sono servite le supplenze di commissari e di task force allestite più o meno in fretta.
A dire il vero, qualcuno di questi mondi ha dedicato un po’ di tempo a fare verifica delle proprie reazioni alla pandemia; ma la maggior parte di essi, specie quelli a maggiore dimensione, ha preferito rilanciare le proprie corporative esigenze (più risorse, più finanziamenti, più personale, più infrastrutture fisiche e amministrative, ecc.). Saranno quelli che verosimilmente si ritroveranno ancora impreparati.
Ma l’impreparazione che dovrebbe maggiormente preoccupare è quella della opinione pubblica, della cosiddetta gente comune, che, secondo alcuni commentatori, si ritroverà lasciata sola alle proprie paure: sul ritorno di un picco ingovernabile di epidemia; sull’arrivo degli abituali sei milioni di stagionali raffreddori e bronchiti, sospettosi di avere contratto il coronavirus; sull’arrivo di tante crisi aziendali e sulle relative perdite di occupazione; sulla insufficienza delle provvidenze recenti, tutte «a pioggia», a garantire adeguate conversioni strutturali; sulla ulteriore caduta della domanda interna e degli spazi di piccola imprenditoria (commercianti, professionisti, partite Iva, pubblici esercizi, ecc.); sulla stessa individuale capacità di fronteggiare l’emergenza (magari con più economia sommersa e più utilizzo di contanti); sulla crescita di malcontento diffuso e di pericolosi conflitti sociali.
Ripercorriamo questa lista di potenziali crisi e tensioni, e constateremo che non siamo preparati a fronteggiarle. E il tradizionale «ci penseremo quando arriveranno» non deve essere un facile alibi per la attuale voglia di godersi il presente e l’estate. Un alibi che non può essere invocato da chi quotidianamente informa i cittadini: occorre, invece, che senta il dovere di fare seria informazione su quel che ha caratterizzato i mesi della meno comunicazione e più informazione; poi meno conferenze stampa e più flussi leggibili di dati, meno sollecitazioni emotive e più costante orientamento dei comportamenti collettivi.
Giuseppe De Rita
Corriere della Sera, 29/07/2020