Perché la politica e la società se ne dovrebbe occupare e preoccupare se una donna può fare tutto da sola, a casa sua, con una pillola?
Con le nuove indicazioni ministeriali sull’aborto farmacologico si conclude un percorso iniziato nel 1978, quando fu approvata la legge che legalizzò l’aborto in Italia. Ora nel nostro paese è definitivamente diventato un esclusivo problema delle donne, che fa parte del novero delle scelte personali come lo è un qualsiasi atto medico, senza alcuna valutazione dell’evento in quanto tale, e che riguarda il Servizio Sanitario Nazionale solo se la situazione precipita dal punto di vista clinico e la donna deve recarsi urgentemente in ospedale per evitare il peggio.
Non abbiamo ancora letto i testi ufficiali: le nuove linee di indirizzo sono state annunciate su twitter – ormai diventato lo strumento privilegiato di comunicazione istituzionale – ma dalle anticipazioni sappiamo che le due pillole usate per interrompere la gravidanza in atto – la prima per far morire l’embrione in pancia, la seconda dopo due giorni per indurre le contrazioni espulsive – potranno essere somministrate senza ricorrere al ricovero ospedaliero, ritenuto necessario finora da tre precedenti pareri del Consiglio Superiore di Sanità. Un quarto parere diverso, quindi, ha dato via libera al Day Hospital, e – parrebbe, dalle anticipazioni – alla somministrazione anche in ambulatori e consultori. All’ospedale si va solo se la situazione va fuori controllo, cioè se l’emorragia abortiva è grave o gli effetti collaterali severi e intollerabili, a seconda di come la donna li vive e li percepisce. Sarà lei a gestire l’intero percorso, in prima persona, anche se non potrà sapere come avverrà il suo aborto, in che tempi e in che modi: le pillole impiegano mediamente tre giorni a interrompere la gravidanza e senza ricovero ospedaliero la donna potrà espellere il concepito anche a casa, o comunque al di fuori di una struttura sanitaria, con tutto quello che questa condizione significa, sia in termini di sicurezza sanitaria per la donna stessa, sia in termini di visione e posizione culturale e valoriale.
Per far passare tutto questo come una “conquista di civiltà” c’è bisogno di una narrativa “amica”, che spacci quello farmacologico come percorso più sicuro e facile. È quello che stiamo leggendo in questi giorni nella grande stampa, con qualche raro momento di onestà intellettuale: ad esempio su il Messaggero di oggi è possibile leggere una testimonianza di chi quell’esperienza l’ha fatta. “Sono tornata quindi per la seconda (pillola, ndr), mi hanno dato una sola pastiglia di antidolorifico e mi hanno assicurato che sarebbe stata una cosa semplicissima. E invece stavo malissimo: ho avuto contrazioni per 5-6 ore, vomitavo, ero completamente disidratata, avevo svenimenti. Io quel giorno ho pensato che stavo per morire. Ero disperata, una dottoressa mi ha guardato e mi ha detto: “ma non lo sapeva che è così?” […] Ma io non sapevo davvero di cosa si trattasse, né sapevo che avrei dovuto pensare a tutto io da sola, in bagno… è stato traumatizzante”. In effetti non c’è niente di nuovo in questo racconto per chi conosce la letteratura in merito, sono queste alcune delle “evidenze scientifiche” del settore, raccontate personalmente anziché con statistiche dedicate, ma evidentemente non rilevanti nel nuovo corso del Ministro della Salute Roberto Speranza e dei suoi esperti.
Certamente chi ritiene l’aborto una pratica inaccettabile perché elimina una vita umana già esistente, non fa dipendere questo suo giudizio dalla tecnica utilizzata per sopprimere quella vita.
Ma non ingannino le apparenze: non si tratta di una mera scelta fra tecniche abortive più o meno appropriate. Se così fosse, non se occuperebbero consigli regionali e comunali: avete mai letto prima di assessori al commercio o al turismo chiamati a votare sull’uso o meno di specifiche pratiche ginecologiche? Eppure è quel che è successo con la RU486, fino a qualche giorno fa, in Italia.
È proprio l’avventarsi della politica su apparenti procedure tecniche a svelare la strategia che utilizza la RU486 come cavallo di Troia: l’aborto farmacologico è un metodo per cambiare nei fatti la legge 194 senza passare per il parlamento. Introdurre, sostenere e diffondere la RU486 significa introdurre, sostenere e diffondere una procedura che porta con sé l’idea della privatizzazione totale dell’aborto, l’idea della estraneità della società dal dramma dell’aborto, una questione che non è più una piaga sociale, un segno di sofferenza e di disagio, ma si trasforma in una scelta che riguarda esclusivamente chi la fa. Perché mai la politica e la società se ne dovrebbe occupare e preoccupare se una donna può fare tutto da sola, a casa sua, una volta avute in tasca le pillole, gli antidolorifici, e l’indirizzo dell’ospedale più vicino se qualcosa non dovesse funzionare? Dell’aborto non se ne parlerà più: non ce ne è più motivo.
Assuntina Morresi
10 agosto 2020