L’umanità si è smarrita. La pandemia del virus covid-19 ha reso evidente la contraddizione mortale della società globalizzata, presa tra l’accelerazione nevrotica dei ritmi di vita e il blocco della sua capacità di procedere nella storia con autentica creatività e responsabilità solidale.
Al di là della velocità di funzionamento dei suoi sistemi organizzativi, la nostra infatti è una società ferma e rimasta senza futuro.
Una società bloccata
Dunque l’umanità deve rimettersi in cammino, il che sarà possibile solo se saprà riconoscersi come un’unica indivisibile comunità. L’arrivo di una grande disgrazia, di per sé, non migliora gli individui e le collettività. Ogni volta si riproduce la solita divisione tra chi ha mezzi, denaro e poteri per tutelarsi e chi è povero e privo di altre risorse, tra popoli arricchiti e popoli depredati.
La disgrazia diventa occasione di svolta positiva solo se si risponde attingendo all’intelligenza del cuore, della mente e dell’esperienza della dignità umana. Se lo facciamo, percepiamo la grande evidenza che in questi decenni è stata oscurata: siamo una sola umanità sulla stessa terra. Ogni logica di competizione, di isolamento, di sfruttamento, di dominio, di respingimento e di «autonomia differenziata» porta ai delitti contro l’umanità. Il mio nemico non è l’altro, è il male che viene da cause fisiche imponderabili e soprattutto il male che viene dalla violenza e dall’iniquità.
È tempo di ritrovare il desiderio di futuro e di liberazione per tutti, sgombrando il campo da false parole come innovazione, crescita, riforme. L’innovazione è una falsa promessa, perché delega alle macchine quello che dovrebbe essere realizzato dalla nostra responsabilità. La crescita come moltiplicazione ossessiva della produzione, dei consumi e dei capitali non fa che acuire le diseguaglianze e distruggere il mondo naturale. Le cosiddette «riforme», infine, sono progetti per concentrare il potere nelle mani delle oligarchie, come oggi sta accadendo in Italia con il tentativo di tagliare la rappresentatività del Parlamento.
La trappola dei sistemi di potere
La modernità ha promesso a ognuno l’autodeterminazione, ma ha costruito una società di poteri oppressivi. Il risultato è la tendenza alla disgregazione del sistema delle relazioni, alla disintegrazione interiore delle persone, alla devastazione della natura. Lo storico e biologo Jared Diamond, avendo studiato le cause dell’estinzione delle civiltà del passato, ne ha trovate due ricorrenti: la distruzione ambientale (anzitutto la deforestazione) e l’incapacità di trasformare il modo di pensare dinanzi all’urgenza di nuove sfide mortali.
La trappola in cui ci troviamo deriva dall’abitudine di fondare la società sul potere. Esso non è possibilità, semmai è un idolo che prende corpo già nello slittamento dal «potere» come verbo (verbo che dovrebbe essere ausiliario) al «potere» come sostantivo: il Potere. Al contrario, il potere è schiavitù: lo è per chi lo subisce, ma è schiavitù anche per chi lo esercita, perché costui dovrà obbedire sempre alla stessa logica, senza poter fare diversamente. Il potere è imposizione, prevaricazione, tendenza alla distruzione. È fatto per riprodurre se stesso, punta solo a espandersi, non ha riguardo per nessuno, non vede la realtà, non dà risposte ai problemi. Rovina tutte le relazioni subordinando la donna all’uomo, il bambino all’adulto, lo straniero al nativo, la natura all’uomo e, in definitiva, il nulla alla vita.
Non a caso l’ideologia più contagiata nel mondo globalizzato è il nichilismo, ossia l’intima convinzione del fatto che non ci sono né senso per l’esistenza né salvezza per nessuno, perché il male è più forte del bene e la morte più forte della vita. Si crede comunemente che l’epoca attuale sia priva di ideologie, crollate alla fine del XX secolo; in realtà il nostro è il tempo del trionfo dell’ideologia peggiore e più subdola, quella dell’adattamento disperato al potere in ogni ambito della vita.
In passato il potere era organizzato attorno alla religione, poi attorno alla politica, oggi attorno all’intreccio tra il mercato a guida finanziaria, la tecnocrazia, l’apparato mediatico mondiale, le reti vischiose delle burocrazie e il circuito violento della geopolitica. Stiamo assistendo agli spasmi della modernità costruita come l’epoca di questi cinque poteri globalizzati. Come potremo liberarci da questa trappola?
Etica compensativa o etica generativa
Di fronte a un male che minaccia l’umanità bisogna anzitutto tornare alla ragione, intesa non certo come macchina per calcolare, bensì come l’organo di sintesi capace di tenere insieme gli affetti, la compassione, la percezione della realtà, il dialogo intersoggettivo, il riconoscimento dei valori più alti. Essa non è fatta semplicemente di cervello, ma consiste anzitutto nella nostra qualità umana. Infatti è grazie all’umanità di cui siamo personalmente capaci che comprendiamo veramente le cose della vita. Qualunque tipo di male ci colpisca – che sia una guerra, un terremoto o un virus – è ben diversa la qualità della nostra risposta, che varia molto a seconda del fatto che siamo un’umanità divisa, persa dietro ideologie di competizione, di profitto o di razza, oppure siamo una comunità solidale e democratica.
La ragione comune, indivisibile, ha natura etica, non tecnica. Ma finché restiamo entro la mentalità dell’attaccamento al potere, abbiamo solo un’etica compensativa, che deve mitigare le spinte distruttive del sistema senza modificare nulla. Se però spezziamo la spirale della superstizione del potere e guardiamo alla vita con gli occhi della vita, allora nasce un’etica generativa, che porta frutto grazie alla capacità di dedicarsi al bene comune superando l’egocentrismo del «prima io» o «prima noi».
Soltanto da questa forza generativa che sa trasformare la sofferenza in passione per la giustizia possono sorgere la nuova politica, la nuova economia, la nuova cultura e la nuova educazione.
La svolta che oggi risulta indispensabile deve portarci a un’autentica trasformazione, che si distingue dal fatto che genera liberazione di quanti erano oppressi. Molto meglio dell’ambiguo termine di «cambiamento», di cui non sono mai chiare la direzione e la qualità, la parola «trasformazione» si riferisce al mutamento di forma della società. La forma è il principio fondante, la logica ispiratrice delle coscienze e delle istituzioni, l’immagine in cui l’umanità può rispecchiarsi. Ebbene la vera trasformazione di cui abbiamo bisogno è la maturazione della forma per cui il principio fondante sia l’etica della dignità dei viventi e del bene comune. La logica conseguente dovrà essere quella della giustizia. Intendo la giustizia che risana le contraddizioni, che guarisce il sistema delle relazioni, che promuove non la competizione o la crescita, ma l’armonia. E l’immagine sarà quella di una comunità aperta che unisce i popoli e realizza la pace tra umanità e natura, non più l’immagine del mercato globale. Ma qual è il senso di una svolta simile, il cui seme va coltivato con pazienza, tenacia e coraggio?
Al servizio della salvezza
Per riconoscerlo è indispensabile recuperare il riferimento personale e collettivo alla salvezza. Nell’epoca moderna esso è stato semplicemente rimosso. Nelle epoche precedenti della tradizione occidentale, in effetti, risultava già compromesso. Nella cultura classica, tranne l’eccezione costituita a suo modo dall’orfismo e dal pensiero di Platone, l’idea di salvezza non aveva senso: si riteneva l’essere umano abbandonato al suo destino. In età medioevale la salvezza determinata da Dio è senz’altro creduta, ma è una salvezza estremamente selettiva, per cui pochi sono salvati e moltissimi dannati. I moderni, da parte loro, sostituiscono a una salvezza per loro non credibile la credenza nel progresso, nella crescita, nella potenza economica, militare e tecnologica.
In tutta questa lunghissima tradizione, nella quale il sentimento segreto più incisivo è stato ed è l’angoscia, ci si è soffermati molto poco a considerare se la salvezza ci riguardi realmente qui sulla terra e se essa abbia un rapporto essenziale con la nostra esistenza. Eppure, già a una prima riflessione si vede che il riferimento alla salvezza per noi è complesso e imprescindibile.
Anzitutto vale, seppure in modo improprio, nell’idea dello scampare a un pericolo mortale: è la salvezza fisica. Poi però il termine è appropriato per indicare la situazione di chi, pur pressato da tendenze moralmente e spiritualmente tossiche, sa mantenere la propria integrità: è la salvezza interiore.
Come ignorare, inoltre, che quando riusciamo a portare frutto per altri nella vita e a non esistere invano possiamo parlare legittimamente di salvezza esistenziale.
Se d’altronde guardiamo al crinale storico dell’epoca attuale, dove l’umanità rischia l’estinzione per la forza distruttiva dei sistemi di potere ai quali si è consegnata, ci rendiamo conto del fatto di avere tutti la responsabilità di lavorare alla salvezza storico-politica della specie e anche del mondo che avremmo dovuto custodire. Allora la stessa speranza nella salvezza escatologica, in modo che davvero sia liberazione universale e definitiva dal male e dalla morte, acquista la sua credibilità quando la attendiamo dall’interno di esperienze di salvezza fisica, interiore, esistenziale e storico-politica.
Ma così l’autentico nucleo vitale dell’idea di salvezza non è ancora emerso. Esso viene alla luce quando comprendiamo che ogni giorno siamo interpellati dalla salvezza etica, che ha luogo quando si incontrano le mani di quanti chiedono aiuto e le mani di coloro che si protendono per sottrarli alla rovina. In qualsiasi momento può accadere che noi siamo nell’uno o nell’altro ruolo, ma l’esperienza etica della salvezza segna quella trasformazione del nostro modo di essere che ci apre insieme all’interezza della vita salvata.
Allora si capisce come ciò che chiamiamo «etica» non sia semplicemente una teoria morale o una serie di regole, perché anzitutto, come ha mostrato Emmanuel Levinas, «etica» è la condizione originaria dell’essere costituiti gli uni custodi della vita degli altri e tutti corresponsabili del bene comune. Ecco perché nella radice del termine ethos c’è il riferimento all’abitare: l’etica è l’arte di coabitare la vita senza distruggere il mondo e senza distruggerci.
Non si tratta di tornare a etiche convenzionali e particolaristiche, proprie esclusivamente di questa o di quella tradizione.
Si tratta invece di convertirsi all’etica della presenza alla salvezza. Perché, a ben vedere, non è esatto ritenere che la salvezza non si dia; piuttosto dobbiamo ammettere che i pericoli peggiori vengono da noi stessi e dal nostro consegnarci a meccanismi che tendono all’autodistruzione. Anche la salvezza escatologica, annunciata in vario modo dalle religioni, non avrebbe alcun senso se fosse un magico evento finale rispetto al quale noi restiamo come oggetti inerti e ignari. Oggi ognuno è subito invitato a rendersi «presente», attivo e fecondo nel cammino trasformativo che può condurre alla vita condivisa e salvata. Dovremo farlo imparando a dismettere le posture, i gesti, le logiche del potere e scegliendo invece le modalità del prendersi cura dei viventi e delle loro relazioni.
Perciò abbiamo bisogno di persone e movimenti che sviluppino la democrazia (inverata come alternativa al neoliberismo, al sovranismo, alla tecnocrazia, al neocolonialismo), di guide maieutiche, di educatori affidabili, di testimoni profetici, di onesti coltivatori dell’arte della convivenza. Per questo Maria Montessori prefigurava l’esigenza di un’educazione cosmica.
Ci è chiesto di vivere ogni attività che contribuisca a dare forma alla società nel senso di un’etica applicata che anticipa il futuro liberato. Quel futuro che non è mai solo una quantità di tempo in più, ma è vita vera che si fa strada nella quotidianità. L’unica via che abbiamo è quella della conversione etica dell’umanità e qui ognuno di noi deve fare la sua parte.
Roberto Mancini