Altro che progresso: con la modifica della legge l’aborto diventa una questione privata. I rischi per le donne.
Il Covid-19 offre ai governi insperate opportunità per far passare provvedimenti che in altri momenti avrebbero suscitato accese discussioni politiche. È accaduto, per esempio, con la modifica sostanziale della legge sull’aborto, attuata dal ministro della Salute, Roberto Speranza, per via procedurale, senza scomodi passaggi in Parlamento. Una soluzione semplicissima. Grazie all’emanazione di nuove linee-guida per l’aborto chimico, l’impostazione della legge 194, che prevede che l’interruzione di gravidanza si effettui solo nelle strutture sanitarie pubbliche, è saltata. L’aborto diventa una questione tutta privata, e tutta a carico della donna, che potrà assumere i farmaci anche in un consultorio, e poi gestire la procedura abortiva, che dura in media tre o quattro giorni, da sola.
La stessa cosa sta avvenendo in Inghilterra. Esattamente come in Italia, tutto è cominciato con la giustificazione del contagio: perché mandare le donne ad abortire nelle strutture sanitarie, oberate di lavoro e concentrate sulla pandemia, quando è possibile somministrare la Ru486, la pillola abortiva, direttamente a domicilio? Da noi è stata la Sigo, la società italiana di ostetricia e ginecologia, a proporre di eliminare il ricovero in ospedale, indicazione che Speranza ha subito recepito nelle sue linee-guida.
In Gran Bretagna, dove la percentuale di interruzioni di gravidanza, soprattutto tra le minori, è assai più alta che in Italia, il ricovero per l’aborto farmacologico non era previsto nemmeno prima ma, sempre grazie al Covid, c’è stato un passo avanti significativo: il medico, la visita in presenza, non servono più, e i farmaci per abortire si possono ottenere direttamente per corrispondenza. Il contatto con il medico si riduce a una telefonata, poi le pillole (si tratta di due diverse sostanze, da assumere a distanza di tre giorni una dall’altra) arrivano comodamente a casa.
L’avverbio non si riferisce alle donne: la comodità è tutta del sistema sanitario, non certo di chi deve sbrigarsela da sola con le incertezze e i pesanti effetti collaterali delle pillole, controllando il flusso di sangue, verificando se l’espulsione dell’embrione è avvenuta, decidendo se i crampi dolorosi e l’emorragia sono entro limiti di normalità o se è il caso di correre in ospedale. Il governo inglese ha prolungato per altri due anni la durata dell’esperimento, che avrebbe dovuto essere temporaneo, ed è evidente che, nonostante i malumori del Parlamento, soprattutto tra i Tories, indietro non si tornerà.
È noto ormai che il metodo chimico è più lungo, doloroso, e soprattutto rischioso, dei metodi tradizionali, e già 13 casi di aborti effettuati con la Ru486 in Gran Bretagna sono sotto indagine. Le notizie sulle morti e sugli eventi avversi emergono però a fatica, in Inghilterra come in tutto il mondo. Il problema è nel metodo stesso: l’aborto scompare dalla scena sanitaria, e la farmacovigilanza non ha strumenti adeguati per monitorare l’aborto a domicilio. È anche per questa mancanza di trasparenza che negli Stati Uniti venti senatori, capitanati dal repubblicano Ted Cruz, hanno lanciato un appello, chiedendo alla Fda, la Food and Drug Administration, di classificare la Ru486 tra i farmaci pericolosi.
Anche qui è in atto una sperimentazione (“Fattibilità dell’aborto medico con la telemedicina diretta al consumatore”) che include le ragazzine dai dieci anni in su, per eliminare la necessità della visita e del contatto diretto tra la donna e il medico. Un giudice distrettuale ha revocato uno dei principali requisiti di sicurezza per l’aborto chimico stabiliti dalla Fda, cioè la necessità che la donna assuma i farmaci in presenza di un medico. L’Amministrazione Trump ha fatto ricorso, invitando la Fda a ripristinare le garanzie sospese, mentre i senatori segnalano nella lettera i rischi sanitari, specificando che con l’aborto a domicilio “gli eventi avversi sono notoriamente sottovalutati, il che rende impossibile stabilirne il numero reale”. Negli anni Settanta la campagna per depenalizzare l’aborto puntava tutto sull’orrore dell’aborto clandestino. Oggi l’aborto torna in una sorta di nuova clandestinità, naturalmente in versione 2.0.
Eugenia Rocella
Il Foglio
14 Settembre 2020