All’esame della Commissione giustizia le proposte di Giorgia Meloni e Mara Carfagna.
Due testi brevissimi, quasi uguali, che sanciscono la punibilità del reato di maternità surrogata anche se compiuto da un italiano all’estero: è quanto prevedono le due proposte di legge rispettivamente a prima firma Giorgia Meloni (FdI) e Mara Carfagna (Forza Italia), la cui discussione è iniziata ieri alla Camera in Commissione Giustizia.
Il problema è sempre più grave: la legge 40 del 2004, che punisce chi «realizza, organizza o pubblicizza» l’affitto di un grembo vale di certo per il territorio nazionale. Al di fuori trova operatività solo se vi sono l’istanza o la querela della persona offesa, oppure la richiesta del ministro della Giustizia. Condizioni pressoché irrealizzabili, nel contesto di questo reato, tanto che procure e giudici ormai da tempo stanno costruendo castelli accusatori o assolutori mutuando altri istituti giuridici, in una babele di sentenze l’una in contrasto con l’altra.
Scaturisce da qui la nuova iniziativa legislativa, il cui fine è dare operatività sicura e concreta alla legge 40. «Appare evidente come non sia più possibile lasciare i tribunali soli», si legge nella relazione introduttiva alla proposta Meloni, un testo che definisce l’utero in affitto «un esempio esecrabile di commercializzazione del corpo femminile e degli stessi bambini che nascono attraverso tali pratiche» e che si rende conto di come i bambini siano «trattati alla stregua di merci».
Ma non solo. «Tutto questo – si legge nel preambolo della norma – dimostra come la “favola” della madre che generosamente presta il proprio corpo a una donna che non riesce a sostenere una gestazione sia lontana dalla realtà», celando «un mercimonio di madri e di bambini”.
È una prospettiva simile quella disegnata dalla relazione introduttiva alla proposta di legge Carfagna, che attinge al «principio dell’indisponibilità del corpo umano», secondo cui «l’acquisto, la vendita, o l’affitto dello stesso sono fondamentalmente atti contrari al rispetto della sua dignità».
Il testo accende i riflettori sulla filiera della maternità surrogata, costituita da «imprese che si occupano di riproduzione umana, nell’ambito di un sistema ampiamente organizzato che comprende cliniche, medici, avvocati e agenzie di intermediazione».
E «in questo sistema – prosegue la relazione – la donna è equiparata agli strumenti di produzione e la gravidanza e il parto rappresentano dei processi produttivi, a cui attribuire un valore d’uso e un valore di scambio». La questione non è religiosa, come qualcuno vuole far credere, ma semplicemente umana. Da qui, si legge nella proposta Carfagna, l’idea «che il contrasto di questo fenomeno deve situarsi in una dimensione globale, o quantomeno internazionale».
Anche in questo i presupposti giuridici non mancano. Nel dicembre 2015, una condanna senza appello dell’utero in affitto è giunta dal Parlamento Europeo in sessione plenaria. E l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, l’anno successivo, ha bocciato a più riprese il cosiddetto “Rapporto De Sutter”, con cui l’omonima deputata belga aveva tentato di ottenere la regolamentazione – dunque la liceizzazione – della maternità surrogata nei 47 Paesi aderenti al Consiglio. Il divieto italiano, dunque, c’è e resta. Solo si tratta di chiudere le scappatoie che minano la sua operatività. A questo dovrebbe ora dedicarsi il Parlamento.
Marcello Palmieri
24 settembre 2020
https://www.avvenire.it/attualita/pagine/utero-in-affitto-reato-legge-italia