E così si torna a parlare di ‘utero in affitto’, più lievemente chiamato ‘maternità surrogata’ o, ancora, ‘gestazione per altri’ (Gpa), in quella torsione linguistica così cara a diversi attuali filoni di pensiero, mossi dalla ricerca di consensi pubblici, che ne amplifichino benevolmente la crudezza dei messaggi. Se ne parla e si pensa di di legiferare in modo meno aggirabile, qui in Italia, dove la pratica è vietata e i casi continuano. Va detto subito: la relazione ‘naturale’ tra la madre, che porta in seno per nove mesi un figlio, subisce in tale pratica una violenza distruttrice, dal momento che il frutto del grembo viene strappato dalle braccia della partoriente, per essere destinato ad altra figura femminile, la cosiddetta madre sociale.
Si è più volte messo in luce il dramma di queste ‘donne- incubatrici’, meno il trauma del nuovo nato che, seppure ancora in modo inconsapevole, viene allontanato da chi l’ha ospitato nel proprio corpo, divenuto ormai corpo sociale, strumento pubblico, utilizzato di chi ha commissionato quella creatura. Il legame originario, fisiologico e psicologico insieme, non riproduce meramente una rappresentazione ‘tradizionale’ o ‘ideologica’, come certa pubblicistica tende ad affermare, ma segna l’inizio di un legame che si rafforzerà tramite i vissuti significativi che nel tempo intercorreranno tra figlio e madre. L’interruzione violenta di quel primo contatto originario quanto peserà sul destino futuro di questo bambino? Non è ancora dato di sapere, mancando al momento una letteratura specifica che si svilupperà inevitabilmente fra qualche decennio. Ciò nonostante, siamo consapevoli del peso della responsabilità che grava su di noi in riferimento alla vita futura dei nuovi nati?
A questi interrogativi si assommano le domande circa la struttura teorica dell’etica del dono, che si rafforzerebbe di fronte alla pratica dell’utero in affitto, secondo la prospettiva di alcuni orientamenti femministi e non solo. Nasce al contrario il sospetto che tale attività finisca per innescare processi di esclusione e di mutilazione dell’identità femminile, dal momento che viene ad essere intaccata la natura stessa della qualità donativa.
È in tal senso possibile individuare una prospettiva all’interno della quale l’etica della cura contempli la pratica del dono non attraverso deduzioni di tipo essenzialistico (quasi fosse possibile inglobarla solo dentro l’archetipo del femminile), quanto piuttosto come modalità intersoggettiva, in grado di promuovere eventi di reciprocità. Questo non significa certo che l’atto del donare non debba essere gratuito e asimmetrico, ma che il paradigma del dono inneschi necessariamente una circolarità fra il donatore e il donatario, che non si spezza mai.
Va da sé che la pratica dell’ utero in affitto non risponde a una logica del dono, ma a un contratto di tipo utilitaristico, che vede ancora una volta la donna vittima di sfruttamento e di mutilazione della propria dignità, smarrita nei meandri fluidi delle soggettività individuali e nei percorsi di un’etica della cura, caratterizzata soltanto dal codice affettivo ed emozionale. Il valore ‘universale’ della maternità non è un fine da realizzare per se stesse, per le donne cioè, ma è un fine in se stesso, perché produce un evento che obbedisce a regole proprie, alla venuta di un nuovo ‘altro’, che esige di essere accolto, curato e, appunto, rispettato in sé e che pretende una nuova responsabilità relazionale, affettiva ed educativa.
Non serve partorire bambini, se non si partoriscono figli , valorizzando il legame originario e rinsaldando il tessuto familiare e sociale, riattivando quella solidarietà generazionale che investe nonni, genitori, fratelli, cugini mediante un forte investimento personale. Concepito il codice materno come evento del corpo, più che come esperienza di due soggetti, la pratica dell’utero in affitto fa riferimento soltanto sulle potenzialità biologiche dell’organo riproduttivo e non in quell’insieme vivente, che è il corpo vissuto della madre, perdendo così di vista l’unità psico-fisica e spirituale delle donne ‘in attesa’.
La donna non ‘produce’ un figlio, ma resta per nove mesi a disposizione della crescita del figlio, è in attesa di un ‘altro’, che è parte di sé e, al contempo, altro da sé. In tal senso, la dinamica del dono si realizza qui in modo convincente come evento di reciprocità: la madre dona il proprio corpo vissuto al figlio, affinché maturi e cresca e, a sua volta, il bambino dona alla madre l’offerta della maternità. L’utero in affitto, oltre ad alterare le dinamiche relazionali proprie dell’etica della cura, non garantisce neppure un assetto sociale, fondato sui valori universali del rispetto, della pari dignità di tutti gli esseri umani, della protezione dei diritti umani delle donne e dei bambini, che diventano strumento organizzato di produzione e di sfruttamento.
Paola Ricci Sindoni
25 settembre 2020
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/no-lutero-in-affitto-non-una-pratica-del-dono