“Torneremo alla vita normale all’inizio dell’estate, verso giugno. Ma attenzione all’effetto rebound, cioè alla seconda ondata di ritorno del virus che potrebbe esserci in autunno”. Fabrizio Pregliasco, virologo, 17 marzo 2020.
“Una seconda ondata di epidemia in autunno più che un’ipotesi è una certezza”. Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute Roberto Speranza, 17 aprile 2020.
“Secondo alcuni scienziati c’è il rischio che alla ripresa del virus influenzale di ottobre e novembre ci possa essere una ripresa anche del coronavirus. Quindi bisogna prepararsi” Attilio Fontana, presidente Regione Lombardia, 2 aprile 2020.
“In autunno rischiamo una seconda ondata di coronavirus”.
Nicola Zingaretti, presidente Regione Lazio, segretario Partito democratico, 6 aprile 2020.
“Seconda ondata in autunno? Non possiamo avere certezze, ma dobbiamo considerarla possibile. C’è stata in altri Paesi del mondo ed è avvenuta in passato rispetto ad altre epidemie. Credo anche però che il nostro Paese sia oggi più forte di quanto lo fosse a febbraio, in primis perché conosce meglio l’avversario con cui si confronta”. Roberto Speranza, ministro della Salute, 22 luglio 2020.
Era inevitabile. Era attesa. Era stata avvistata per tempo. La seconda ondata è arrivata. L’Italia, come il resto dell’Europa, ne è stata travolta. E, ancora una volta, è successo in un attimo. Com’è stato possibile? Cosa poteva e doveva esser fatto e non è stato fatto. E perché?
Repubblica ha ricostruito quanto accaduto tra la seconda metà di luglio e la prima metà di ottobre scorsi. Nei 90 giorni che hanno cambiato il nostro destino. Partendo da un documento – “Prevenzione e risposta. Covid-19: evoluzione e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-invernale” – stilato dal ministero della Salute, dall’Istituto superiore di Sanità, dall’Inail e dalla Protezione civile. Quel documento doveva essere la nostra linea del Piave. Si è trasformato nella certificazione della nostra Caporetto. Indicava le otto “barriere” che avrebbero consentito di resistere all’urto della seconda ondata: il tracciamento, la sorveglianza, la tecnologia, il sistema di rilevamento, la nuova organizzazione sanitaria negli ospedali e sul territorio. E il denaro fresco da spendere per implementare e supportare l’intero sistema. A partire dai trasporti e dalle scuole. Non ne è rimasta in piedi una sola. Ecco come è andata.
L’estate delle cicale
Sappiamo molto dell’estate da cicala di un Paese che, a giugno, vive l’uscita dal lockdown come un tana libera tutti. E di quanto quei tre mesi di rimozione collettiva pongano le basi di un autunno di nuova sofferenza. Sappiamo meno dell’estate di Giuseppe Conte. Che, oggi, retrospettivamente, appare l’esatta sineddoche dello stato d’animo e del peccato di hybris che ci condannerà.
Martedì 21 luglio, alle sei e cinque del mattino, il premier, a valle di un vertice europeo massacrante, esulta in conferenza stampa: 209 miliardi del Recovery Fund andranno all’Italia. Non dorme e mangia pochissimo da quattro giorni. Pensa di avere in mano la chiave che assicurerà anni di rilancio all’Italia. È convinto di essersi liberato del fantasma del Mes. E però, lasciando Bruxelles, confida: “Sono stanco, davvero. Sono al limite”. Comincia così un agosto di ritardi, decisioni non prese, rinvii. Come il capo dell’esecutivo, una parte importante del governo rimanda decisioni fondamentali. E quando Palazzo Chigi se ne renderà conto, sarà troppo tardi.
In agosto, per settimane, i vertici del Pd e dei Cinquestelle sembrano come in balia degli eventi, imbambolati dal relax che accarezza il Paese, regalando settimane di respiro dopo l’incubo di marzo. Anche il premier rallenta, fin quasi a fermarsi. “Conte è stanco”, “Conte risponde poco al telefono”, “servirebbe fare il punto con Conte”. Ma anche i ministri dem e M5s, anche i governatori non sembrano esattamente sul pezzo. Come se il peggio fosse ormai alle spalle. Il magazine “Diva e Donna” pubblica le foto del presidente del Consiglio durante un breve soggiorno con la compagna Olivia Palladino presso l’Hotel Punta Rossa di San Felice Circeo.
Domenica nove agosto, venti giorni dopo la maratona di Bruxelles, negli Stati Uniti l’epidemia galoppa. Il segnale che la Bestia tornerà. In Francia e Spagna, si registrano focolai sempre più larghi. L’Italia invece festeggia. Il Pil corre. Tutti al mare, mentre Roberto Gualtieri sogna un grande terzo trimestre, che in effetti ci sarà. Sarebbe bene attrezzarsi per fronteggiare la seconda ondata. Ma il governo sembra timido – i governatori addirittura infastiditi dai freni – come se il peggio fosse passato. Conte scompare dalla scena pubblica. Viene avvistato in Puglia, Ceglie Messapica, in un ristorante celebre, una stella e l’ambizione di conquistare la seconda. Sarebbe chiuso, ma per il Presidente riapre. Il menù è ricco: dall’aperitivo di polpettine di carne fritte alle orecchiette di semola integrale e grano arso, fino al doppio dessert, biscotto di Ceglie cotto con la ricetta di nonna Dora e un altro dolce dal nome allegro: “Che fico”. Nessuno immortala la visita: la richiesta dello staff è di evitare i telefonini. Soltanto una foto ufficiale a disposizione dei presenti lascerà traccia dell’evento.
I protagonisti
Fino al 22 agosto di Conte non c’è quasi traccia, se si esclude un’intervista sulle elezioni regionali. Ed è solo il 30 quando, a fine mese, gli sbarchi di migranti crescono di intensità e Luciana Lamorgese e Luigi Di Maio volano in Tunisia, che il premier si lascia convincere ad affrontare una videoconferenza in cui decidere il da farsi. Settembre, se lo portano via le elezioni regionali. La Sardegna contagiata da un focolaio che si allunga con i rientri dalle vacanze su Roma e Milano viene degradata a faccenda regionale. La convinzione radicata è, Dio solo sa perché, che all’Italia sarà dato un tempo per prepararsi che il virus, in Europa, non ha dato a nessuno. Finché, il 15 ottobre, Dario Franceschini manda un sms a Conte. Gli chiede un vertice urgente. Bisogna fare qualcosa per fronteggiare l’onda montante del virus.
Il presidente del Consiglio è a Bruxelles per il Consiglio europeo, prende tempo. Franceschini, siamo al giorno 16, esce allo scoperto pubblicamente: “Ho chiesto ieri al premier un vertice appena farà ritorno in Italia”. Conte decide di volare prima in Calabria, per i funerali della governatrice Jole Santelli. Poi di confermare la presenza al Festival di Limes di Genova, alle 20 di venerdì sera. Discute di politica estera e scenari geopolitici globali. A Roma lo attende il resto del governo. Ecco un altro problema: le riunioni notturne. È un metodo, quello di fare tardi. Conte pare l’abbia appreso dalla Cancelliera tedesca, che glie ne ha illustrato i vantaggi. La notte aiuta a piegare le resistenze politiche e ad appianare i conflitti. Solo che decidere in piena notte non è sempre una buona idea. Trasmette l’angoscia dell’emergenza. Toglie lucidità. Se ne lamentano alcuni ministri. Diventa slogan con cui l’opposizione attacca Palazzo Chigi.
Tracciamento e sorveglianza: “È saltato tutto”
È comunque di sera che, il 22 ottobre, sul tavolo del Governo pronto a firmare un Dpcm che tornerà a chiudere un pezzo d’Italia, certificando così l’arrivo della seconda ondata, il ministro della Salute Roberto Speranza lascia scivolare un numero: 7.073. Che spiega così: “In questa settimana abbiamo avuto 7 mila casi al giorno, quasi 50 mila nuovi casi non riconducibili a catene di trasmissione note. È un numero importante, che supera l’80 per cento dei nuovi casi segnalati in alcune regioni”. “Che significa?”, chiede uno dei ministri presenti. “Significa che non sappiamo dove si sono contagiati”, è la risposta. Chi era presente a quella riunione ricorda il lungo silenzio seguito a quella affermazione. Ancora meglio la chiosa che l’avrebbe seguita: “È saltato il sistema di tracciamento praticamente in tutte le regioni”.
Il tracciamento doveva essere la prima delle barriere che avrebbe dovuto proteggerci da questa seconda ondata. Ci avevano raccontato che non saremmo stati più presi alla sprovvista, come a marzo. Che i dipartimenti di prevenzione sarebbero stati in grado di tracciare e isolare tutti i nuovi positivi e individuare le catene di contagio. Grazie al lavoro sul campo dei tracer, vocabolo ormai entrato nell’uso comune: “Gli investigatori del virus”. E al supporto tecnologico offerto dalla App Immuni. Bene, nulla di tutto questo è stato fatto. O per lo meno non come è stato promesso.
Partiamo dai numeri. All’inizio dell’epidemia, in Italia, i dipendenti dei servizi di prevenzione, il motore del sistema di tracciamento in ogni singola Asl, erano 8.900. Il Governo aveva promesso il rafforzamento con almeno il 30 per cento in più di addetti.
Lo aveva scritto al primo articolo del “Decreto cura Italia”, quello che avrebbe dovuto prevenire la seconda ondata, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 19 maggio scorso. “Al fine di rafforzare l’offerta sanitaria e sociosanitaria territoriale necessaria a fronteggiare l’emergenza epidemiologica – si legge – le Regioni sono chiamate ad adottare piani di potenziamento e riorganizzazione della rete assistenziale. Questi piani devono contenere specifiche misure di identificazione e gestione di contatti, indirizzate a un monitoraggio costante e a un tracciamento precoce dei casi e dei contatti, per la relativa identificazione dell’isolamento e del trattamento”. Avrebbero dovuto essere assunti non meno di 3 mila tracciatori. E invece non ne sono arrivati che 341. E per capire cosa significhi questo numero è utile fare un viaggio. Da Bari a Vercelli.
Bari, Epidemic intelligence center
Severina Cavalli è al telefono. Come sempre nelle ultime due settimane. A due passi dal mare, la Asl di Bari – una delle più grandi di Italia – ha allestito l’Epidemic intelligence center, un vecchio ambulatorio che è stato riadattato a centrale operativa del tracciamento. Ci lavorano una ventina tra ragazzi e ragazze. Sono tutti giovanissimi, neolaureati e diplomati. “Il loro lavoro – spiega il professor Pierluigi Lopalco, epidemiologo di fama appena diventato assessore regionale alla Salute, in Puglia – è quello di tracciare i nuovi contagi. Ricostruiscono i contatti stretti di ogni positivo, dispongono gli isolamenti domiciliari e i tamponi, seguono ciascun paziente fino alla negativizzazione”. Il sistema è virtuoso. Meglio, lo sarebbe. Perché, nonostante il lavoro pancia a terra di tutti, anche qui tutto è saltato.
Vita da tracer
A Bari siamo entrati nell’Epidemic intelligence center, per osservare da vicino e raccontare il contact tracing, in uno dei punti più importanti con cui la sanità pubblica prova a tamponare gli effetti del Covid-19 sulla popolazione. Di Gianvito Rutigliano e Daniele Leuzzi
“Potremmo dire che il personale è il 50 per cento in meno di quello che dovrebbe”, ragiona Lopalco. “Ma la verità è che siamo nel mezzo di una pandemia. E probabilmente non saremmo mai abbastanza. L’esempio è quello delle scuole”. Lopalco ha convinto il presidente della Regione, Michele Emiliano, dopo una vibrata protesta dei pediatri di base, a decidere la chiusura delle scuole. Tutte. “Una misura impopolare, lo capisco. Che politicamente non piace nemmeno a me. Ma era inevitabile”. E il perché lo si capisce proprio ascoltando la dottoressa Cavalli. Da quindici giorni è al telefono con le scuole della provincia di Bari. I contagi sono bassi, meno dell’1 per cento della popolazione, ma il tracciamento che hanno sviluppato è diventato insostenibile: 236 classi in quarantena, 4600 studenti, 20 mila persone da tracciare nel giro di due settimane. “Come potevamo reggere?”.
L’untore di Vercelli
I numeri hanno mandato in tilt il sistema. Ma lo hanno fatto anche i bugiardi. E gli irresponsabili. Questa è la storia di José, chiamiamolo così. Il 13 luglio atterra a Torino con un volo da Santo Domingo. Proviene da un paese a rischio, dovrebbe segnalarsi alla Asl, restare in quarantena per due settimane. Ancor più perché sul suo volo nei giorni successivi viene riscontrato un positivo. Lui non fa nulla, anzi. A Vercelli, la sua città, frequenta la piscina, le due discoteche-privé che gestisce con un socio, va a giocare a basket (la sua passione), partecipa a un funerale in provincia di Novara. Quando ha i sintomi, febbre e un principio di desaturazione, va al pronto soccorso.
Dimesso dopo tre giorni, ancorché positivo, prosegue la vita di sempre. Il primo agosto, festa patronale, frequenta le giostre con il figlio di 5 anni. Poi, il 14, va a un altro funerale, questa volta un magrebino a Vercelli, porta il virus anche in quella comunità. Il 19 settembre intanto, quasi due mesi dopo il ritorno di José, la polizia viene chiamata per sedare una rissa in uno dei due locali che l’uomo aiuta a gestire. Le tre persone che si picchiavano nella sala da ballo avrebbero dovuto essere a casa perché positive. Risultato: 126 contagi accertati, due ricoveri, un decesso, 2.000 tamponi eseguiti nelle prime settimane. “Ancora oggi continuiamo a vedere casi probabilmente legati a quell’episodio”, spiega Virginia Silano, responsabile del Servizio di igiene e sanità pubblica della Asl di Vercelli.Padova, 19 ottobre 2020
Il baco
Troppi positivi, dunque. E in alcuni casi troppo difficili da tracciare per la poca collaborazione. Ma è in questo il fallimento del tracciamento italiano? Non esattamente. Almeno a sentire chi lavora sul campo. Per incredibile che possa apparire, la verità è che manca un sistema unico di tracciamento nel Paese. Ad oggi, le 220 Asl che coprono l’intero territorio nazionale tracciano i contatti dei positivi ciascuna con un proprio sistema. C’è chi impiega un software all’avanguardia (in Emilia e in Veneto, per esempio), chi uno programmato in casa (la Puglia). Chi addirittura utilizza la carta o fogli di calcolo Excel.
Fabrizio Faggiano, il direttore dell’Osservatorio epidemiologico della Asl di Vercelli, racconta: “I 126 positivi del focolaio di agosto li abbiamo contati uno a uno sfogliando file Excel”. Mentre le propaggini di quel cluster che si sono estese a Novara, sono custodite nella memoria di un altro computer, in un’altra Asl. Questo rende impossibile dare risposte sensate a domande semplici: cosa c’è dietro i numeri? Dove avvengono i contagi? Quali sono le situazioni più a rischio? In quali comuni o in quali quartieri di grandi città la situazione rischia di sfuggire di mano?
Tutti i Paesi del mondo si sono misurati con la sfida di ricostruire le catene di contagio. Gli Stati Uniti hanno identificato il pericolo in bar e locali dove si mangia o si beve. La Cina ha ricostruito nei dettagli una cena contagiosa in un ristorante di Guangzhou, a gennaio, riproducendo addirittura la direzione dell’aria condizionata che ha trasportato il virus. La Germania ha analizzato il primo focolaio in Baviera con una lente da Sherlock Holmes, isolando un contagio in una mensa aziendale avvenuto probabilmente con il passaggio di una saliera da un tavolo all’altro. Taiwan ha capito come il virus si trasmette in aereo vivisezionando un volo che era diventato un focolaio. Da noi, nulla di tutto questo. “Ma sono convinta – precisa Stefania Salmaso, epidemiologa – che questi dati preziosi esistano, chiusi in qualche Asl. Invece, sarebbe vitale farli parlare. E parlare tra di loro”.
Test Covid obbligatorio per i viaggiatori che tornano da Paesi ad alto rischio. Germania, 9 agosto 2020
Anche qui, l’allarme era stato dato prima dell’estate. Salmaso, ex direttrice del Centro nazionale di epidemiologia e sorveglianza dell’Istituto Superiore di Sanità, aveva coordinato un’indagine in un campione di Asl italiane e, con un gruppo di colleghi, aveva riassunto i punti deboli del sistema in un editoriale sulla rivista dell’Associazione italiana di epidemiologia (Aie). “Arrivare preparati all’autunno“, era il titolo.
“Il tracciamento dei contatti – si leggeva – è un’attività essenziale per il controllo dei focolai e la prevenzione di seconde ondate epidemiche”. E le indicazioni erano chiare: “Uniformare in tutto il Paese la raccolta dei dati, inclusa l’unificazione delle schede informative”; mantenere “a un buon livello i sistemi informativi regionali garantendo la loro interoperabilità, attualmente inesistente”; adeguare “alla nuova fase le piattaforme di sorveglianza, per consentire di raccogliere le informazioni necessarie a descrivere le nuove catene di contagio (contesti di esposizione, ambiti lavorativi, esecuzione di test sierologici)”.
Senza dati si procede a tentoni. E gli epidemiologi non sono rimasti soli nel denunciare la raccolta erratica e poco ragionata delle informazioni in Italia. A giugno, anche l’Accademia dei Lincei, che raccoglie studiosi di ogni disciplina, aveva lanciato un suo appello: “I dati che l’Iss e la Protezione civile rendono pubblici sono estremamente scarsi: in questo modo la comunità scientifica nel suo insieme non è in grado di fare valutazioni affidabili”.
Immuni. La App che non parla con nessuno
Un aiuto tecnologico importante avrebbe dovuto darlo “Immuni”, la App voluta dal governo per aiutare il sistema di contact tracing. Lo scorso inverno, la primavera e anche l’estate sono andati via per lunghissime, e utilissime, discussioni sulla sicurezza di un sistema di questo tipo. Per accertarsi che un’applicazione sanitaria non diventasse un sistema di tracciamento di diverso tipo, si sono chiesti garanzie rigidissime che sono state rispettate. L’App tutela la privacy. Peccato però che non abbia dato alcun aiuto sul piano pratico. I download sono stati quasi dieci milioni ma nell’ultima settimana le notifiche di utenti positive sono state appena 800. Com’è possibile?
I motivi sono sostanzialmente tre: la gestione della App è stata affidata ai dipartimenti di prevenzione che, subissati da altre emergenze, non sono stati assolutamente in grado di gestirla. Ancora più se, come è successo, non era stato affrontato il tema della integrazione della App con i diversi sistemi sanitari regionali. In sostanza, data la positività, non c’era nessun processo automatico che la inseriva nel sistema. Infine, è mancato un punto di integrazione con i laboratori che testavano i tamponi: in Germania il 70 per cento dei laboratori è collegato con l’Applicazione. In Italia, praticamente, nessuno.
Un piano rimasto lettera morta
Dove non arrivava l’informatica, sarebbe dovuto arrivare l’uomo. I medici di base. Ebbene, oggi è possibile dire che se la seconda ondata è arrivata, e ci ha travolto, è anche perché l’assistenza territoriale è ferma. E lo è in particolare quella domiciliare. Le persone infettate dal coronavirus e sintomatiche non vengono seguite a casa e dunque finiscono per il convergere tutte nei pronto soccorso o direttamente e su richiesta del medico nei reparti degli ospedali. Il gran numero di malati, più o meno gravi, che gravano sulle strutture riempie prima di tutto i reparti ordinari, che infatti sono già in affanno. Non solo: chi non viene seguito a casa quando ha i primi sintomi, magari si aggrava e rischia di diventare un paziente ancora più difficile da trattare per l’ospedale. Di quelli che possono finire in rianimazione.
Un operatore sanitario presso l’ospedale di Casal Palocco a Roma, 26 ottobre 2020Eppure, anche in questo caso, si poteva intervenire prima. Si poteva evitare il disastro perché un progetto, esisteva e, per giunta, era anche finanziato.
Basta tornare al solito articolo 1 del Decreto rilancio, 19 maggio 2020. Il titolo non lascia spazio a interpretazioni: “Misure urgenti in materia di assistenza territoriale”. Si invitano le Regioni a realizzare, come si è detto, i dipartimenti di prevenzione. Ma viene prevista anche la “sorveglianza attiva” con medici di famiglia, pediatri, guardie mediche, Usca (le Unità per le cure domiciliari create dal ministero alla Salute) al fine di “identificazione, isolamento e trattamento”. Professionisti diversi che si occupano di seguire telefonicamente, o se necessario visitandole, le persone in difficoltà.
Nel decreto si invitano le Regioni anche ad affittare strutture alberghiere fino al 31 dicembre. L’atto è approvato nella fase di discesa della curva epidemica e non si vuole perdere tempo. Vanno creati, o confermati nel caso siano già stati già presi durante la prima ondata, gli hotel sanitari, dove mettere positivi asintomatici che non possono fare la quarantena a casa perché non hanno spazi adeguati, oppure pazienti in uscita dall’ospedale che vanno ancora seguiti, in modo meno specialistico. Poi ci sarebbero gli infermieri di famiglia o di comunità, che devono “potenziare la presa in carico sul territorio dei soggetti infettati”, anche supportando le Usca. Si dà il via libera all’assunzione con contratti a tempo o a tempo indeterminato di 8 di loro per ogni 50 mila abitanti. Cioè ben 9.600. Per non dire del quasi avveniristico, ed effettivamente ancora lontano dall’essere applicato, comma 8.
Un paziente in terapia intensiva presso l’ospedale di Casal Palocco a Roma, il 26 ottobre 2020″Per garantire il coordinamento delle attività sanitarie e sociosanitarie territoriali, così come implementate nei piani regionali, le Regioni e le Province autonome provvedono all’attivazione di centrali operative regionali, che svolgano le funzioni in raccordo con tutti i servizi e con il sistema di emergenza-urgenza, anche mediante strumenti informativi e di telemedicina”. Infine, 10 milioni per l’assunzione di infermieri che affianchino i medici di famiglia nei loro studi.
Per il progetto dell’intera filiera che dovrebbe proteggerci dall’autunno della seconda ondata vengono stanziati ben 1 miliardo e 256 milioni di euro. Una cifra importante. “Rafforziamo in maniera profonda e duratura il servizio sanitario nazionale”, dice il ministro della Salute Roberto Speranza alla presentazione del provvedimento (da oltre 3 miliardi se si considerano anche gli stanziamenti per ospedali e altro personale). Ma l’estate passerà e nulla di tutto questo accadrà
CARLO BONINI
LA REPUBBLICA
8 Novembre 2020