La recente esternazione di Alberto Melloni su “Repubblica” a proposito dell’Università Cattolica e di Cl è un atto di ostilità gratuito senza basi storiche.
La recente esternazione di Alberto Melloni, noto storico contemporaneista, curatore tra l’altro di una nota edizione dei diari di Giovanni XXIII, è degna di nota. Di fatto, in un articolo su Repubblica volto a presentare una raccolta di studi di Nicola Raponi sull’Università Cattolica (raccolta realizzata da Luciano Pazzaglia) Melloni ha denunciato una crisi oggettiva quanto vistosa dell’Università Cattolica di Milano.
Il celebre ateneo, a suo avviso, non produrrebbe da tempo che personalità intellettuali e politiche di scarsa qualità e la colpa andrebbe ascritta al monopolio che Comunione e liberazione vi avrebbe esercitato per anni. Questo movimento — la cui leadership in questa università andrebbe ascritta alla volontà di Giovanni Paolo II — avrebbe di fatto eliminato le realtà ecclesiali concorrenti, esercitando un vero e proprio monopolio che sarebbe alla base del vuoto attuale. In pratica l’ateneo, fondato dal “sogno medievalista” di Padre Gemelli “filofascista ed antisemita” (sic!), per quanto abbia prodotto “un pregiato e ristretto nucleo di giuristi, economisti, filosofi e storici con un ritmo costante” sarebbe entrato in profondo declino per colpa del monopolio che il movimento di don Giussani vi avrebbe esercitato “a partire dal 1983”.
L’elenco delle colpe lascia senza parole: “risentimenti, pedagogia del disprezzo, denigrazione metodica delle istituzioni, sdoganamento del turpiloquio che è sempre fascista, ebrezza da disintermediazione, manipolata vicinanza alla gente”. In pratica non solo l’Università Cattolica non produrrebbe da oltre trent’anni personalità di rilievo, ma di questa sterilità Cl sarebbe chiaramente responsabile.
Una tale esternazione è oggettivamente preoccupante per la triste regressione che fa compiere alla cultura nazionale. Siamo ancora fermi alle accuse di “medievalismo” (cosa vuol dire?) di filofascismo e di antisemitismo (ancora?). Dove Cl segnerebbe il declino della cultura e il trionfo dell’arroganza. Giocando con il cuore e le emozioni dei lettori e trasformando un’analisi storica in una sentenza, Melloni sembra volersi continuare a muovere a colpi di parole d’ordine, evocando spettri e sfoderando accuse. Proprio oggi, a decenni luce di distanza da quell’epoca, quando in realtà tutto consente analisi ben meno affrettate e anatemi meno ridicoli.
Basti solo ricordare che nel 1983 — anno della presunta investitura di Cl alla leadership da parte di Giovanni Paolo II — gran parte della storia del movimento di don Giussani aveva già toccato il suo apice. Erano oramai finiti gli anni settanta con il loro corteo di accuse al vetriolo (Cl serva della Cia), gli assalti alle sedi da parte dell’antifascismo militante, i feriti. Al loro posto un movimento che aveva scelto (ed avrebbe potuto benissimo non farlo) di giocarsi sul fronte della politica (il Movimento Popolare) dell’economia e del lavoro (la Compagnia delle Opere) della cultura (il Meeting di Rimini): operazioni non certo facili e forse anche temerarie, ma che hanno certamente segnato una dinamica particolare nella storia del cattolicesimo italiano della seconda metà del secolo scorso.
Quanto alla leadership e quindi al monopolio sulle altre associazioni vale la pena di ricordare come, in quegli stessi anni ottanta, la diocesi di Milano (la più grande del mondo) fosse saldamente in mano al cardinale Carlo Maria Martini: una personalità della Chiesa che è ben difficile immaginare come condizionabile. Veramente Melloni crede che l’Università Cattolica fosse dominata da Cl? Nel 1983? Veramente Melloni pensa che una personalità di spiccato carisma personale e di indiscutibile potere istituzionale come il cardinale Martini avrebbe tollerato un tale monopolio senza proferir parola? Sinceramente, faccio molta fatica a crederlo.
In quegli anni muovevo i primi passi della mia ricerca e Cl era per me un singolare movimento ad un tempo fortemente articolato sul piano sociale (capace cioè di “giocarsela” anche al di fuori dei recinti parrocchiali, con tutti i rischi che ciò avrebbe implicato) quanto effervescente sul piano intellettuale. Vi ho trovato dentro di tutto, e tanto più incontravo le singole personalità, quanto più mi imbattevo in percorsi autonomi e singolari. Con molti potevo non essere in sintonia e la stessa immediatezza del linguaggio suonava per me ben poco comprensibile. Ma quando si fa ricerca non si distribuiscono patenti, né si danno certificazioni di qualità. Per me si trattava (e si tratta ancora) di capire come fosse stato possibile un simile movimento e che tipo di dinamica avesse avviato, tanto al proprio interno quanto all’esterno. Con gli anni appresi quanto il “linguaggio ciellino” andasse ricondotto a don Giussani stesso, ai suoi innumerevoli interventi, nonché alla metodica delle “scuole di comunità” e quindi fosse prova di un’immediatezza e di un coinvolgimento perfettamente comprensibili.
Negli anni ottanta non ebbi nessun sentore del monopolio del quale Melloni parla. Nei miei passaggi in Cattolica mi imbattei invece tanto in fieri ed espliciti oppositori di Cl, quanto in colleghi che continuavano ad operare e ad organizzare corsi e seminari ignorando sia don Giussani sia il suo movimento, senza che ciò inficiasse il loro potere accademico (che non era affatto marginale). Nel 1982 Giovanni Paolo II si recava al Meeting di Rimini: ma una tale investitura non implicava affatto l’assegnazione di un esercizio di monopolio. Altri movimenti hanno beneficiato dello sguardo benevolo e, me lo si conceda, lungimirante di questo pastore della Chiesa: dai focolarini di Chiara Lubich finalmente riconosciuti alla Comunità di Sant’Egidio, il cui incontro con Papa Wojtyla dice moltissimo tanto sulla personalità di quest’ultimo, quanto sull’entusiasmo dei suoi interlocutori.
Da dove Melloni trova gli elementi per parlare di un simile monopolio, quando, sinceramente, non ne ho affatto trovato traccia? A meno di non vedere nel successo stesso che Cl riscuoteva il mero risultato di un appoggio esterno più che di un’empatia interna. Ma se una simile connessione causale dovrebbe essere presa in considerazione allora sarebbe tutta da dimostrare, in quanto non è affatto auto-evidente, mentre invece lo è certamente l’invidia dei detrattori.
Ma ancora (e soprattutto). Visto che l’Università Cattolica è uno dei nostri più rilevanti riferimenti culturali, il giudizio severo che Melloni proferisce all’indirizzo di quest’istituzione è, a sua volta, altrettanto rilevante. Le accuse sono gravi e poiché Melloni è uno storico, ci si attendono fatti e circostanze, quindi testi e documenti. Cosa ha fatto sì che questi assumesse una presa di posizione così radicale? E soprattutto, dato che gli spazi in un giornale sono comunque limitati, quale urgenza lo ha spinto ad esternare simili conclusioni in un articolo necessariamente di poche righe, quando giudizi di una tale gravità andrebbero, come Melloni ben sa, motivati in tutt’altra forma e con ben altro metodo?
Ci sono due risposte possibili: la prima rinvierebbe a strategie e dissidi specifici che hanno reso necessaria e inderogabile una simile esternazione. Sarebbe la soluzione più semplice, ma anche la meno rispettosa nei confronti di Melloni. Ce n’è allora un’altra: quella di avere fatto semplicemente ricorso ad un’abitudine culturale diffusa tra molti storici (ma anche tra molti sociologi), per la quale sono le valutazioni e i giudizi a contare veramente, le ricostruzioni non sono che il cammino per giungervi. Si tratta cioè, alla fine del lavoro, non di spiegare bensì di valutare; si tratta di assegnare una posizione su di una scala dove gli estremi rappresentano punti opposti e inconciliabili: progresso/tradizione, modernità/oscurantismo, destra/sinistra. Alla fine dell’analisi si distribuiranno le meritate certificazioni di appartenenza e le opportune collocazioni di merito sullo scacchiere di una cultura orientata verso un divenire normativamente doveroso. Questo e non altro sembra costituire il compito inderogabile, la missione autentica per chiunque voglia costituirsi come coscienza critica della propria epoca.
In realtà si tratta di un’operazione rischiosa, non sempre necessaria, spesso deleteria.
Il contrario, cioè la ricostruzione delle logiche e delle ragioni che hanno portato ogni singolo protagonista a specifiche scelte e non altre, restituirebbe una coscienza più completa di un mondo e di un’epoca, permettendo di cogliere le traversie e le fatiche di uomini, movimenti e istituzioni. Ricostruire le logiche anziché distribuire patenti di correttezza politica dovrebbe essere il compito delle scienze storico-sociali. Ma, come è dato vedere, i giudizi non hanno la pazienza di attendere. Poco importa che le motivazioni siano omesse, è la sentenza a valere.
Salvatore Abbruzzese
Il Sussidiario.net, 11 gennaio 2018