Il 47 per cento dei giovani fra 18 e 25 non andrà a votare. E giù recriminazioni sulla società liquida e via dicendo. Ma i responsabili si possono indicare col dito.
Il 47 per cento dei giovani fra 18 e 25 non andrà a votare, dicono i sondaggi. Il 47 per cento vuol dire praticamente la metà, un ragazzo su due persuaso che mettere la scheda nell’urna sia inutile. E tutti cominciano a stracciarsi le vesti, a parlare di “generazione scomparsa”, a spulciare nei programmi dei partiti per scoprire che i giovani sono l’ultima delle preoccupazioni.
A me — eterno bastian contrario — sembra che il punto chiave sia un altro. Proviamo a entrare nelle case di questi ragazzi. Che idea hanno respirato della politica? Quanti dei loro genitori sono in qualche maniera impegnati in azioni rivolte al bene comune? Quanti dei loro genitori hanno come unico orizzonte la fine del mese, il weekend, l’auto nuova? Tutti obiettivi legittimi, nobilissimi, intendiamoci; ma se un ragazzo cresce in una famiglia così, come può sviluppare un interesse per il contesto che lo circonda? In quante case non si sente parlare di politica se non in termini qualunquisti, delegittimanti? Se tutto quel che i ragazzi sentono in casa sono frasi fatte del tipo “I politici sono tutti ladri”, “Fanno solo i loro interessi”, “È tutto un magna magna”, che idea si possono fare della politica? C’è da stupirsi che tirino le conclusioni, che si immaginino che non vale neanche la pena di fare la fatica di andare fino alle urne?
È uno sport facilissimo scagliarsi contro i giovani, lamentare che il loro orizzonte è — non sempre, grazie a Dio — il loro interesse immediato, il soddisfacimento del loro desiderio qui e adesso, che non hanno il senso della comunità in cui vivono. Più difficile è ricordarsi che i nostri figli sono sempre figli nostri: i loro comportamenti rendono evidente quel che noi viviamo davvero. Se noi — noi adulti, noi vecchi — abbiamo una passione per il bene comune, per la costruzione di un mondo un po’ più umano per tutti, i nostri ragazzi la respirano, diventano curiosi, vanno anche a votare (come i giovani impegnati in mille attività sociali che ricorda, giustamente, Mario Landoni in un intervento sull’Huffington Post: ma quelli sono appunto il restante 53 per cento); se il nostro orizzonte è il nostro “particulare” (Guicciardini docet, è una malattia antica) di che cosa ci stupiamo, se i ragazzi ci seguono?
Poi, certo, ci sono anche le colpe della politica: se i partiti, nessuno escluso, si combattono solo a colpi di promesse che neanche con la bacchetta magica, come stupirsi che i ragazzi non ci credano?
Poi, certo, ci sono anche le colpe della scuola. Se io nelle mie quinte liceo ho sempre spiegato i sistemi elettorali, la loro storia in Italia, come funzionano il Mattarellum e il Porcellum e il Rosatellum, e che è ovvio che il Presidente del Consiglio non lo eleggiamo noi perché lo dice la Costituzione e così via, e miei studenti mi hanno sempre ringraziato dicendomi più o meno “Lei è l’unico che ci ha spiegato queste cose”, come stupirsi che i ragazzi non si rendano conto di quel fanno?
Il 4 marzo è troppo vicino, credo, per cambiare qualcosa; ma dal 5, se vogliamo, c’è lavoro per tutti.
Roberto Persico
Il Sussidiario.net, 22 gennaio 2018