La morte di Marina Ripa di Meana ha acceso in casa cattolica un interessante dibattito tra doloristi e non doloristi.
Semplificando ed estremizzando, i primi rifiutano sempre e comunque qualsiasi forma di sedazione perché negli ultimi istanti di vita occorre conservare lucidità e perché in tal modo ci si conforma maggiormente all’esempio di Cristo in croce, ed invece i secondi accettano sempre e comunque qualsiasi forma di sedazione perché il dolore degrada la dignità umana ed esiste il dovere morale di lenire le sofferenze.
Chi ha ragione?
In questi termini nessuno. Proviamo a capirci qualcosa. Il dolore fisico ha una sua utilità, perché è un campanello di allarme che l’organismo fa suonare per segnalare che qualcosa non va. Ma il dolore intacca anche la salute psicologica. Ora l’uomo ha il dovere morale di tutelare la propria salute e quindi anche di lenire il dolore. Ma come ogni dovere affermativo è contingente, ossia non deve essere rispettato sempre e comunque. Quale è il criterio allora per decidere se si deve in quel particolare frangente soffrire oppure no? È dato dal criterio di proporzionalità, cioè di efficacia etica. In altri termini l’uomo deve compiere quell’azione che gli promette il maggior bene (posto che tale azione non costituisca un atto intrinsecamente malvagio). Infatti tutti siamo chiamati alla perfezione.
Applichiamo quanto sin qui detto al caso del sig. Rossi, paziente moribondo che soffre molto. Su costui ad esempio gravano alcuni obblighi morali: deve occuparsi ancora di gravosi impegni di famiglia e di alcuni affari importantissimi, deve rappacificarsi con un parente con cui da anni è in conflitto, sente l’esigenza di prepararsi spiritualmente per ricevere in modo conveniente l’assoluzione nella confessione e di affrontare la morte con lucidità e, dato che per un cattolico è doveroso dal punto di vista delle fede conformare la propria vita a Cristo, grava su di lui anche il dovere di realizzare questa imitatio Christi persino in punto di morte, conservando un certo grado di vigilanza che invece alcune terapie antalgiche potrebbero intaccare. Di contro il sig. Rossi ha anche il dovere morale di curare la propria salute, tra cui c’è anche la cura del dolore. Quali tra questi doveri prevale dato che sono tutti doveri affermativi e dunque obblighi che non devono essere adempiuti sempre e comunque? Nel rispetto del principio di proporzione o di maggior efficacia etica, prevalgono i doveri che hanno un contenuto di bene maggiore. In breve nel conflitto tra doveri prevalgono i doveri più importanti perché ci rendono più perfetti. E dunque la cura del dolore che porta all’obnubilamento delle facoltà razionali deve essere posposta rispetto ad alcuni gravi doveri familiari ed economici, al dovere di carità verso gli altri, alla salvezza della propria anima, alla sequela di Cristo, tutti doveri che comportano il pieno possesso delle proprie facoltà intellettive.
Ma facciamo il caso che il dolore sia così acuto che porti il sig. Rossi al deliquio persistente, ossia alla perdita più o meno marcata della lucidità di pensiero. Ecco allora che la sedazione del dolore sarebbe necessaria, anche nel caso in cui si arrivasse alla perdita di coscienza perché, sempre rifacendoci al principio di proporzione, è meglio essere incoscienti senza soffrire che soffrendo. Oppure facciamo l’ipotesi in cui il sig. Rossi prevedesse che, all’aumentare del dolore, perderà le staffe, diventerà insopportabile, correndo addirittura il rischio di inveire contro il Signore e dunque di morire non in grazia di Dio. La dottrina cattolica suggerisce con forza di tenersi lontano dalle tentazioni, ossia dalle occasioni di compiere il male. Sarebbe quindi opportuno che il sig. Rossi chieda la sedazione, anche se ciò gli procurerà la perdita di coscienza, per evitare che possa compiere il male. In modo più analitico potremmo dire che la mancanza di fortezza nell’affrontare il dolore non solo non gli permetterà di soddisfare alcuni doveri familiari e spirituali di alto pregio, ma potrebbe spingerlo a compiere alcuni atti malvagi. Meglio sedare.
Mutatis mutandis, santa Teresina di Lisieux raccontò nel suo Storia di un’anima che una volta, in monastero, presa da rabbia profonda verso una sua consorella che le aveva fatto un torto e sapendo che non sarebbe riuscita a domarsi in quella precisa circostanza, decise di farsi sbollire la stizza rifugiandosi lontano da lei sulle scale del convento. Se sai che il nemico è più forte di te, meglio non affrontarlo viso a viso. Tornando al sig. Rossi, caso analogo all’esempio appena indicato sarebbe quello in cui, non perdendo di lucidità, le cure palliative potrebbero aiutarlo a vivere più serenamente gli ultimi istanti di vita e quindi potrebbero facilitarlo nell’ essere più vicino a Cristo, seppur non nella dimensione della sofferenza fisica, ma – per ipotesi – in quella psicologica permettendogli di fare un bilancio sereno della propria vita che potrebbe portarlo alla contrizione di cuore, meditando sulle sofferenze di Cristo, della Chiesa e dei fratelli, etc. La compressione del dolore in alcuni casi agevola una condotta cristiana più che l’accettazione in toto della sofferenza.
Altro caso in cui prevale il dovere di lenire il dolore è quello in cui la sofferenza è insopportabile. Il brocardo latino, che anche Tommaso D’Aquino rammenta spesso nelle sue opere, “ad impossibilia nemo tenetur” (alle cose impossibili nessun è tenuto) si può applicare anche al dolore impossibile da tollerare: in queste ipotesi non c’è il dovere morale di soffrire proprio perché non si può comandare un’azione impossibile da compiere. Troviamo queste considerazioni condensate in modo adamantino nel documento Iura et bona della Congregazione per la dottrina della fede, le cui argomentazioni verranno poi riprese in modo quasi identico nell’Evangelium vitae al n. 65. Si inizia indicando il vertice di perfezione a cui siamo chiamati, la sequela di Cristo fin sul Golgota perché anche le nostre sofferenze, se unite alle sue, possono acquistare potere salvifico per noi e per altri: “Secondo la dottrina cristiana, però, il dolore, soprattutto quello degli ultimi momenti di vita, assume un significato particolare nel piano salvifico di Dio; è infatti una partecipazione alla Passione di Cristo ed è unione al sacrificio redentore, che Egli ha offerto in ossequio alla volontà del Padre. Non deve dunque meravigliare se alcuni cristiani desiderano moderare l’uso degli analgesici, per accettare volontariamente almeno una parte delle loro sofferenze e associarsi così in maniera cosciente alle sofferenze di Cristo crocifisso” (III).
Segue poi la precisazione che tale dovere di soffrire non è assoluto, ma relativo: “Non sarebbe, tuttavia, prudente imporre come norma generale un determinato comportamento eroico. Al contrario, la prudenza umana e cristiana suggerisce per la maggior parte degli ammalati l’uso dei medicinali che siano atti a lenire o a sopprimere il dolore, anche se ne possano derivare come effetti secondari torpore o minore lucidità”. E dunque il dovere di conformarsi a Cristo è assoluto, da rispettarsi sempre, ma per alcuni significherà bere l’amaro calice della sofferenza fino all’ultima goccia, per altri invece significherà spegnersi più serenamente. Gli Apostoli morirono tutti martiri, eccetto Giovanni.
Da ultimo si ricorda il principio di proporzione, principio cardine per comprendere quale tra i diversi doveri morali e di fede debba prevalere, vale a dire se è doveroso o meno soffrire: “Gli analgesici che producono negli ammalati la perdita della coscienza, meritano invece una particolare considerazione. È molto importante, infatti, che gli uomini non solo possano soddisfare ai loro doveri morali e alle loro obbligazioni familiari, ma anche e soprattutto che possano prepararsi con piena coscienza all’incontro con il Cristo. Perciò Pio XII ammonisce che “non è lecito privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo” (Pio XII, Allocutio, die 24 febr. 1957)” (ib.). Dunque se su un piatto della bilancia abbiamo la perdita di coscienza e dell’altro abbiamo l’impossibilità di soddisfare ad alcuni doveri familiari e spirituale è doveroso rimanere vigili – perché tali obblighi pesano maggiormente dell’obbligo di lenire la sofferenza – eccetto per gravi motivi ossia se l’effetto negativo della perdita di coscienza è superato, ad esempio, dall’effetto positivo di evitare occasioni per compiere il male o se soffrire meno ci permette di vivere più cristianamente gli ultimi istanti di vita.
Il principio di proporzione è poi richiamato anche nel caso in cui la sedazione non solo farà perdere coscienza al paziente ma gli abbrevierà la vita: “L’uso intensivo di analgesici non è esente da difficoltà, poiché il fenomeno dell’assuefazione di solito obbliga ad aumentare le dosi per mantenerne l’efficacia. Conviene ricordare una dichiarazione di Pio XII, la quale conserva ancora tutta la sua validità.
Ad un gruppo di medici che gli avevano posto la seguente domanda: “La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici… è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)?”, il Papa rispose: “Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: Sì” (Pio XII, Allocutio, die 24 febr. 1957). In questo caso, infatti, è chiaro che la morte non è voluta o ricercata in alcun modo, benché se ne corra il rischio per una ragionevole causa: si intende semplicemente lenire il dolore in maniera efficace, usando allo scopo quegli analgesici di cui la medicina dispone” (Ib.).
Sotto altra ma equipollente prospettiva il dilemma “soffrire sì, soffrire no” può essere validamente risolto, caso per caso, applicando il principio del duplice effetto (lo stesso che Pio XII aveva applicato al caso appena citato): lenire il dolore è azione buona, non si cerca ma si tollera la perdita di coscienza e quindi l’impossibilità di adempiere ad alcuni doveri, tali ultimi effetti negativi non producono l’effetto positivo della diminuzione del dolore, si deve versare in stato di necessità e – aspetto che nelle ipotesi descritte è qui centrale – l’effetto positivo della mancanza di sofferenza deve prevalere sugli altri effetti negativi. È su quest’ultimo punto che occorrerà verificare, caso per caso, la reale proporzione tra effetti negativi e positivi.
In sintesi spetterà alla virtù della prudenza del paziente comprendere qual è, date alcune circostanze, il maggior bene possibile, ossia quali doveri affermativi prevarranno rispetto ad altri doveri affermativi, quali beni morali peseranno maggiormente. Il medesimo principio di compiere il bene si declinerà allora in modalità differenti perché si rispetterà il principio di proporzione/efficacia etica e quindi per alcuni prevarranno alcuni doveri a prezzo di grandi sofferenze, per altri il dovere di lenire il dolore a prezzo della perdita di coscienza.
Tommaso Scandroglio
La Nuova Bussola Quotidiana, 20 gennaio 2018