Lo sappiamo da anni che il futuro della mobilità è l’auto elettrica: tre volte più efficiente, meno costi in manutenzione, abbattimento delle accise sul carburante. Ma non decolla. Nonostante i livelli di polveri sottili siano quasi sempre fuori controllo, nonostante gli investimenti ogni anno annunciati. Il primo ostacolo è il prezzo: dai 30 mila ai 37 mila euro per un’utilitaria su strada. Troppi per il consumatore medio, che dai dati Federauto può permettersi di spendere 8 mila euro. «Più veicoli elettrici costruiamo, peggiore diventano le emissioni di anidride carbonica» ha detto Toyoda chiedendosi se «quando i politici affermano “liberiamoci di tutte le auto che usano benzina”, lo capiscono?».
In Italia ce ne sono 15 milioni in circolazione. Mentre le istituzioni e le autorità regolatorie di quasi tutto il mondo spingono verso il bando dei veicoli con motori termici, cresce però anche il numero degli esperti che esprimono riserve sulla transizione elettrica. Dopo il Ceo di Volvo Hkan Samuelsson — che aveva invitato i costruttori ad essere più trasparenti sulla reale impronta di CO2 delle auto elettriche — è la volta di Akio Toyoda, presidente della Toyota, che dice senza mezzi termini che «l’attuale modello di business dell’industria automobilistica rischia di crollare se il settore passerà ai veicoli elettrici troppo in fretta».
Un paese in black out con troppo auto elettriche?
In una conferenza stampa in qualità di presidente della Japan Automobile Manufacturers Association, Akio Toyoda, nipote del fondatore della Casa automobilistica Kiichiro Toyoda, ha detto che il Giappone resterebbe senza l’elettricità durante il periodo estivo se tutte le auto funzionassero con energia elettrica. È ha svelato cifre impressionanti, in quanto per disporre di un’infrastruttura capace di supportare una flotta di veicoli elettrici al 100% il costo per il Giappone sarebbe tra 135 a 358 miliardi di dollari. E poiché la maggior parte dell’elettricità del Paese viene generata bruciando carbone e gas naturale, non si tratta di un aiuto per l’ambiente.
«Le emissioni di CO2? Aumenteranno con le ecar»
«Più veicoli elettrici costruiamo, peggiore diventano le emissioni di anidride carbonica» ha detto Toyoda chiedendosi se «quando i politici affermano “liberiamoci di tutte le auto che usano benzina”, lo capiscono?». Le dichiarazioni del presidente della Toyota sono arrivati poche settimane dopo che il Governo giapponese aveva rivelato un piano per vietare la vendita di nuove auto a benzina a partire dal 2035. Nonostante l’avversione di Toyoda per una transizione aggressiva ai veicoli elettrici, la sua azienda sta investendo molto in questo stesso ambito. Toyota prevede di investire più di 13 miliardi di dollari nell’elettrificazione nei prossimi dieci anni, poiché l’azienda punta a vendere 4,5 milioni di auto ibride e un milione di veicoli completamente elettrici all’anno entro il 2030.
Le materie prime per le batterie in mano alla Cina
E poi c’è il tema geopolitico: la Cina controlla le materie prime. I produttori sono obbligati a incrementare la produzione di elettrico per rispettare il limite di emissioni imposto dalle norme europee (95 grammi a km) ed evitare pesantissime sanzioni. Per metà delle case produttrici in Europa, prima del lockdown, si prospettavano sanzioni di circa 400 milioni di euro per il 2020 e di 3,3 miliardi nel 2021. Sta di fatto che su 80 milioni di auto che ogni anni vengono vendute nel mondo, solo 2,1 milioni sono elettriche e la metà circola in Cina. Dunque per abbassare il prezzo bisogna venderne tante. Il problema è che per farle camminare ci vuole la batteria e occorre fare i conti con il Paese che sta a monte della filiera delle materie prime necessarie a produrla: cobalto, nichel, litio. La Cina ha in concessione quasi il 90% dei giacimenti mondiali e controlla anche il know how del processo industriale. Pechino ha colonizzato il Congo, che è il più grande produttore di cobalto al mondo, e strappato contratti decennali di sfruttamento anche in Sud America. Si è portata avanti con l’elettrico perché non avendo grandi produttori di automobili, e dovendo ridurre l’inquinamento nelle grandi megalopoli cresciute a dismisura per effetto delle transizioni demografiche dalle campagne, ha puntato da subito sullo sviluppo dell’elettrico. La Cina da anni investe sulle batterie per la domanda di prodotti di elettronica di largo consumo – smartphone, tablet, pc – di cui è diventata la fabbrica del mondo. La Foxconn, con sede a Shenzhen è lo storico fornitore di Apple, Amazon, Hp, Microsoft, Sony, BlackBerry.
Metalli rari, acqua di mare, giga-factory: la via europea
Per recuperare il gap che ci lega mani e piedi alla Cina, la ricerca europea sta europea sta correndo e negli Stati Uniti la Ibm sta sperimentando il modo di estrarre metalli rari dell’acqua di mare. Ma poi per trasformare in elettrico 80 milioni di auto che ogni anno si vendono nel mondo servirebbero 240 gigafactory per costruire le batterie, al costo di due miliardi di euro l’una. Oggi i maxi-stabilimenti sono tre: quello di Tesla in Nevada, il secondo è in Cina, il terzo in Svezia con la Northvolt, appena ricapitalizzata da Volkswagen e Bmw in un’operazione che gli esperti hanno qualificato come la prima mossa europea nella battaglia per il litio. Sarebbe già possibile lanciare sul mercato vetture ad un prezzo più contenuto, ma la domanda schizzerebbe verso l’alto esaurendo in poco tempo lo stock attualmente a disposizione. Così i grandi produttori, pur annunciando maxi-investimenti, mettono sul mercato modelli costosi, proprio perché ampliando l’offerta la Cina finirebbe per avvantaggiarsene in una competizione geopolitica amplificata dai dazi commerciali.
Fabio Savelli
Corriere della Sera
19 Dicembre 2020