Dittatore è oggi un termine dall’accezione negativa: il suo significato corrente corrisponde al capo di un governo assoluto che non rispetta l’ordinamento democratico, dopo aver conquistato il potere con un golpe o con una rivoluzione. Non era così nella prima Roma repubblicana: al dictator si faceva ricorso in casi straordinari di pericolo derivante da nemici esterni o da rivolte; non eletto dalle assemblee popolari, era dictus, cioè nominato, da uno dei consoli, d’intesa con l’altro console e col senato; in coerenza coi pieni poteri a lui conferiti e col carattere eccezionale del suo mandato, quest’ultimo non oltrepassava i sei mesi, o durava un periodo inferiore se in minor tempo egli avesse adempiuto al compito del quale era stato incaricato.
Nell’Italia di oggi il dictator romano ha degli epigoni che probabilmente non sospettano neanche di esserlo: i commissari di governo. Col dictator costoro hanno in comune che non sono eletti dal Parlamento ma sono nominati da un collegio ristretto, in genere il consiglio dei ministri; sono chiamati ad affrontare situazioni eccezionali, sul presupposto che chi dovrebbe farvi fronte per varie ragioni non vi è riuscito o non è in grado di provvedere; hanno poteri ampi, ma comunque regolati dalla legge; il loro mandato dovrebbe essere circoscritto nel tempo, con obiettivi limitati.
Qui terminano le analogie e cominciano le differenze: dal 501 al 203 a.Cr. – quindi per ben tre secoli – sono ricordati appena 63 dictator. Oggi i commissari sono una legione, dai livelli meno elevati ai fronti più impegnativi: il governo nomina un commissario ogni qual volta un Comune perde il sindaco o la maggioranza prima della scadenza, oppure quando nel Comune si riscontrano infiltrazioni mafiose (e qui il commissariamento comincia ad allungarsi). La pandemia in corso ha fatto ricorrere al commissario prima per il reperimento delle mascherine, poi per l’approvvigionamento dei banchi a scuola, quindi per l’ampliamento delle terapie intensive, infine per il vaccino che verrà. Prima dell’istituzione delle Procure antimafia voluta da Giovanni Falcone, per più anni vi è stato un Commissario antimafia, che addirittura era qualificato Alto, con la “a” maiuscola: a sottolineare non la statura fisica bensì quella istituzionale, che invece era assai discutibile.
Il felice caso di Genova
Perfino per svolgere funzioni ordinarie, come la gestione del fondo di ristoro delle vittime del racket, vi è un Commissario “straordinario”, nonostante sia stato istituito per legge oltre vent’anni fa. Quando in qualche settore della vita nazionale si ritiene che le autorità competenti non ce la facciano, subentra il commissario: nella sanità una quindicina d’anni or sono si è iniziato a commissariare le aziende sanitarie locali, poi si è passati al commissariamento della sanità di una intera regione, la Calabria, dove la gestione “straordinaria” (sic) dura da 11 anni. A ogni disastro naturale segue puntuale la nomina del commissario alla ricostruzione, pur se i poteri conferiti variano di volta in volta e a seconda delle devastazioni. A ogni disastro umano invece pure: si pensi al commissario all’Ilva. Come viene censita la popolazione, sarebbe interessante e utile un censimento dei commissari, distinti per settori, aree geografiche, ragioni della nomina, profili professionali di provenienza. In attesa che qualcuno vi provveda, va svolta qualche considerazione.
La prima è di sistema. Se si avverte la necessità di nominare commissari perfino per l’acquisto delle mascherine è perché l’ordinario non funziona. Prova ne è che i commissari che alla fine vanno meglio sono coloro che già hanno un ruolo, spesso elettivo, che già impone loro di interessarsi della vicenda oggetto del commissariamento, sul quale si sovrappone l’incarico commissariale: si pensi all’esempio felice del sindaco di Genova, che ha gestito al meglio la costruzione del nuovo ponte, dopo il crollo dell’agosto 2018. Vi è un dato positivo e uno negativo: quello positivo è che chi già amministra il territorio sa meglio, se capace, come muoversi. Quello negativo è che ha bisogno di poteri speciali, in deroga a quelli dei quali dispone, ma se la deroga diventa la regola la regola va cambiata. Senso di responsabilità e serietà politica imporrebbero quindi di trasformare per tutti “a regime” quelle possibilità operative precluse nella ordinarietà. Non farlo significa mantenere in modo ipocrita norme la cui applicazione si sa essere paralizzante.
La seconda è pure di sistema, ma interessa le persone, e le qualità che dovrebbero avere per esercitare i poteri fuori dall’ordinario. Come ogni moneta inflazionata, la figura del commissario ha perso peso e qualità, per lo meno quanto alla media. Si è ironizzato – non a torto – sul generale dell’Arma che è stato commissario alla sanità della Calabria prima delle forzate dimissioni; pochi però si sono chiesti che c’entra un ufficiale dei Carabinieri con la riorganizzazione degli ospedali, con l’equilibrio dei loro bilanci, con l’efficienza delle prestazioni sanitarie. Soprattutto per talune funzioni e in talune regioni, le figure individuate sono parse corrispondere a canoni di onestà presunta sulla base del lavoro prima svolto: perché meravigliarsi se i risultati sono stati disastrosi? È un automatismo ideologico ritenere che un manager sia per ciò stesso più corruttibile di un magistrato o di un graduato della Benemerita, e perciò il secondo vada preferito al primo. Il rispetto della legge andrebbe presunto per chiunque, previa adeguata verifica, ma è certo che un’azienda, pur sanitaria, è gestita meglio da chi ha esperienza di settore rispetto a chi ha indossato una divisa.
Un esercito da rinnovare
La questione è complessa e merita approfondimento. Insieme con meccanismi ordinari farraginosi vi è pure quell’insieme di disposizioni sulla responsabilità penale e contabile, che contribuisce al blocco della pubblica amministrazione. Ne abbiamo accennato su queste colonne e ritorneremo. È certo tuttavia che, di fronte all’esercito dei commissari e alla qualità di commissariamenti, un governo e un parlamento dotati di buon senso dovrebbero lavorare intensamente per riequilibrare il quadro: puntando a una ordinarietà che valorizzi e riprenda i poteri qualificati straordinari, ma efficaci e funzionali, conferiti ai commissari che hanno saputo utilizzarli; puntando, finché il percorso – non agevole né breve – non si completa, a rinnovare la platea dei commissari cui attingere nelle more, dotandola di qualifiche adeguate agli scopi di volta in volta individuati. Magari senza incaricare del compito
Articolo di Alfredo Mantovano da Tempi dicembre 2020