Pubblichiamo l’Introduzione di S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi al XII Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân (Cantagalli, Siena 2020, pp. 256, euro 16) dal titolo Ambientalismo e globalismo: nuove ideologie politiche, con saggi di Airoma, Casciano (entrambi del Centro studi Rosario Livatino), Battisti, Cascioli, Gagliardi, Giaccio, Molion, Quagliariello. Il Rapporto può essere acquistato scrivendo a info@vanthuanobservatorty.org]. Mons Crepaldi è Arcivescovo di Trieste, fondatore e presidente emerito dell’Osservatorio.
Solo se la natura non è intesa naturalisticamente si può comprendere come oggi l’ambiente rappresenti una questione sociale. Ogni forma di naturalismo, invece, lo degrada a utopia o a ideologia. Cogliere l’ambiente come questione sociale significa assumerlo come avente una relazione intrinseca con l’uomo, come «problema morale»[1]. Di più: significa anche intenderlo come un ordine finalistico che l’uomo può disordinare. Ma riconoscere questo implica di riconoscere che l’uomo aveva ed ha un dovere di ordinare, rispettando e sviluppando un ordine affidatogli, il che è un dovere morale.
Possiamo essere aiutati a cogliere pienamente l’ambiente come questione sociale utilizzando il concetto di “ecologia umana”, proprio sia delle scienze sociali sia del magistero sociale della Chiesa. Per le scienze sociali, l’ecologia umana è la considerazione dell’ambiente non solo in termini ambientali o tecnici, ma anche in termini umani e sociali, sicché il degrado della natura è conseguenza ed insieme causa di disagio sociale e il disagio sociale è conseguenza e causa nello stesso tempo del degrado della natura. Anche il magistero della Chiesa adopera il concetto di “ecologia umana”, ma in un senso diverso. Il paragrafo 38 dell’enciclica Centesimus annus di Giovanni Paolo II sottolinea come spesso – anche se mai a sufficienza – ci interessiamo dell’ambiente naturale, compreso l’impegno di molte associazioni per la salvaguardia di alcune specie animali ritenute necessarie all’equilibrio dell’ecosistema, mentre non ci impegniamo nella stessa maniera per salvaguardare l’ambiente umano: «ci si impegna troppo poco per salvaguardare le condizioni morali di un’autentica ecologia umana». Se, infatti, abbiamo un dovere di rispettare l’intenzione originaria di bene che Dio creatore vi ha messo, abbiamo un dovere ancora maggiore di rispettare «la struttura naturale morale dell’uomo» che pure «è stato donato a se stesso da Dio». La natura non è solo l’ecosistema infra-umano. Anche l’uomo ha una propria natura. All’uomo è data sia la natura fisica sia se stesso come natura. Ambedue contengono un mandato perché rappresentano un disegno, ma di gran lunga superiore è il secondo a cui la stessa natura fisica è finalizzata. La prima dimora di ognuno di noi, prima ancora dell’habitat fisico e sociale, siamo noi stessi. In questo modo la dimensione morale, umana e quindi sociale, non è più solo una delle quattro variabili che interagiscono nel sistema dell’ecologia naturale, come accadeva nel concetto di ecologia umana delle scienze sociali, ma diventa la primaria e la più importante.
Nasce così un’ottica completamente rinnovata circa il modo di guardare al problema ecologico: esso non è più primariamente un problema ecostistemico, fisico, ingegneristico, non è più il problema, per usare l’espressione della Sollicitudo rei socialis, della «natura visibile»[2]: è prima di tutto un problema umano. Se l’uomo rispetta la sua propria ecologia, ossia si costruisce da uomo e crea una società in cui gli uomini possano respirare, ne conseguiranno anche una natura più respirabile e un’acqua più pulita.
Oggi gli elementi legati all’inquinamento umano, ossia al rispetto della natura della persona, influiscono talmente su quelli strettamente naturali al punto che qualcuno si chiede se si possa ancora parlare di natura. La possibilità di procreare al di fuori di un contesto naturale, di intervenire sul Dna e quindi sulla natura di una persona, di riplasmare il proprio corpo sembrano determinare il netto primato della cultura sulla natura. È quindi evidente che se la cultura risponde ad esigenze di ecologia umana, se cioè è rispettosa dell’intangibile dignità della persona, ne deriverà anche un rispetto degli equilibri naturali stessi, viceversa la manipolazione-distruzione della natura sarà sempre più massiccia. Oggi la bioingegneria è veramente il banco di prova dell’incontro possibile tra ecologia umana ed ecologia ambientale. Le moderne pandemie, sono solo secondariamente dei fenomeni naturali. Spesso nascono dal non rispetto dell’ecologia umana.
Il problema ambientale oggi viene concepito come il problema delle risorse non riproducibili o come la salvaguardia degli equilibri climatici o come la questione dell’energia. Il che è vero. Non intendo minimizzare questi problemi, ma si sente anche la necessità di recuperare a fondo l’aspetto dell’ecologia umana come origine dell’equilibrio naturale o, se disattesa, come causa ultima del degrado.
Con tutto ciò non ho ancora parlato del principale problema culturale che oggi emerge dal rapporto tra l’umanità e la natura. Mi riferisco al problema della tecnica[3] che, oggi, diversamente dal passato, emerge con drammatica urgenza.
Oggi la tecnica tenda a presentarsi ormai “allo stato puro”, come “nudità del puro fare”. L’appiattimento dell’uomo sul puro fare, la tecnicizzazione del suo mondo, ci impaurisce perché la vediamo accompagnata dall’indifferenza a quanto non sia tecnica. Siamo preoccupati sì dalla tecnica, ma soprattutto dal fatto che dietro ad essa non si intraveda nulla, o si intraveda il nulla, ponendosi l’uomo solo domande circa il “come”. Questo intendo dire con l’espressione “nudità” della tecnica. Oggi la tecnica tende a giustificarsi come mera presenza e come pura possibilità di fare. Anche Romano Guardini indicava questo volto livido della tecnica. Nelle sue “Lettere dal Lago di Como”[4] egli collegava il dominio della tecnica con la pretesa di portare alla luce la radice stessa della vita, ciò che in essa è più intimo: «si scoprono uno dopo l’altro nuovi rapporti; i fatti diventano leggi; lo sguardo si spinge ad esplorare sempre più da vicino le sorgenti primordiali della vita, le origini»[5]. Questo rendere presente, questo portare alla luce, questo disincantare, questo mettere davanti ai nostri occhi, da un lato riduce lo spessore della realtà, appiattendola a quanto è presente nella sua nudità, dall’altro riduce lo spessore della coscienza umana che diventa, indifferentemente, un constatare una mera – e vuota – possibilità.
Joseph Ratzinger ha lucidamente messo a fuoco la dittatura della tecnica, che egli chiama Positivismo, secondo la quale «ciò che si sa fare, si può anche fare»[6]. Egli aveva da tempo seguito lo sviluppo della tecnica e nell’opera Introduzione al Cristianesimo ne aveva descritto la genealogia. Secondo lui i passaggi sono stati tre: Cartesio ha trasformato il sapere in calcolo, Vico ha individuato la verità nel factum; Marx l’ha vista nel da farsi[7]. Questa adesione al novum inteso come faciendum ha comportato di intendere l’alienazione come persistenza del passato (tradizione) e del trascendente (metafisica).
La dittatura della tecnica sta tutta nella sua nudità, ossia nel ritenere che tutto sia visibile e che tutto sia fattibile. Di più: nel pensare che l’essere delle cose consista nella visibilità e nella fattibilità. La «dittatura del relativismo, denunciata più volte da Benedetto XVI, oggi prende soprattutto le sembianze della nudità della tecnica.
La nudità della tecnica comporta quindi che tutto sia visibile e tutto sia fattibile. Quanto al primo punto, Ratzinger notava che, per la fede «l’elemento non suscettibile di essere visto, quello che non può assolutamente entrare nel nostra raggio visivo, non è affatto l’irreale, ma è anzi l’autentica realtà» [8]. Quanto al secondo egli osservava che «La fede cristiana è un’opzione a favore di una realtà in cui il ricevere precede il fare; senza che per questo il fare venga sminuito di valore o addirittura dichiarato superfluo»[9]. La nudità della tecnica è assolutamente incompatibile con la fede cristiana e, quindi, la fede cristiana è indispensabile per vincere la nudità della tecnica: la ricostituzione di un senso ricevuto e non prodotto non potrà che avvenire attraverso un recupero del Logos, della ragione, ma oggi non può essere la ragione da sola a compiere questo sforzo, deve essere la fede cattolica la quale, facendolo, salva anche la ragione[10]. La fede può vincere il nichilismo della tecnica solo intendendosi espressione dell’Intelligenza del Principio, e quindi recuperando anche la ragione umana.
Una delle principali vie culturali per superare il nichilismo della tecnica è di rilanciare la dottrina cristiana della creazione[11] come punto di partenza di una cultura del ricevere prima che del fare. La natura intesa come creazione, afferma Giovanni Paolo II, è una «vocazione»[12]. Da un lato la natura è un “dono” e dall’altro è un “disegno” che è stato affidato all’uomo perché collabori alla sua realizzazione. La natura, così intesa, è una “vocazione” per l’uomo: egli è chiamato a leggere nella propria natura personale in rapporto alla natura degli esseri infra-umani secondo il giusto ordine delle priorità, il disegno di Dio. Questa chiamata in cui consiste la creazione, secondo Guardini, ha l’effetto di produrre la consapevolezza reale del proprio “io”: «L’uomo ha in assoluto la necessità di intendere se stesso come un io autonomo, solo perché scaturisce dalla chiamata di Dio e persiste nella forza di tale chiamata»[13]. Ricevendo se stesso come compito assieme all’intera natura fisica, l’uomo si costituisce nella propria eminente identità. «È nella risposta all’appello di Dio, contenuto nell’essere delle cose, che l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve dare questa risposta, nella quale consiste il culmine della sua umanità, e nessun meccanismo sociale o soggetto collettivo può sostituirlo. La negazione di Dio priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a organizzare l’ordine sociale prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona»[14].
Il nichilismo della tecnica propone all’uomo di essere costruttore di se stesso ma in questo modo ne fa un “prodotto”. Alla coscienza propone di limitarsi a constatare le pure possibilità di fare che le si presentano davanti in tutta la loro nudità. All’io impone di non tenere conto di un “sé” come proprio ambito di significato oggettivo. Se l’uomo, così, ha solo diritti poco importa se a soddisfarli sia un apparato politico burocratico centralizzato oppure un mercato che soddisfa le voglie e trasforma i desideri in diritti. Ambedue sono espressioni della tecnicizzazione.
24 dicembre 2020
[1] Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, n. 6.
[2] ID., Sollicitudo rei socialis, n. 34.
[3] Cfr. Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate, cap. 6.
[4] R. Guardini, Lettere dal lago di Como. La tecnica e l’uomo, Morcelliana, Brescia 19932.
[5] Ivi, pp. 40-41.
[6] J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Introduzione di M. Pera, Cantagalli, Siena 2005.
[7] ID., Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, pp. 32-35.
[8] Ivi, pp. 32-21.
[9] Ivi, p. 41.
[10] Ricavo questo insegnamento fondamentale dalle molteplici volte in cui Benedetto XVI ha chiesto di “allargare la ragione” che richiede a sua volta, come espresso nell’enciclica Spe salvi (2007), di “allargare la speranza”.
[11] Si veda il saggio di Mauro Gagliardi in questo Rapporto.
[12] Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, n. 3.
[13] R. Guardini, Mondo e persona, Morcelliana, Brescia 2000, p. 47.
[14] Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Centesimus annus, n. 13.