Non è solo l’arma decisiva per sconfiggere il virus: la sua storia è anche una grande epopea di ingegno umano e dinamismo imprenditoriale che ci dà indicazioni preziose per la ripartenza.
Un’indagine
Mentre leggete queste righe, circa 12 milioni di persone in 29 paesi sono state vaccinate: circa 5 milioni in Cina, quattro negli Stati Uniti, oltre un milione in Israele e altrettante nel Regno Unito, mentre il numero di dosi somministrate nell’Unione europea sta rapidamente crescendo (in Germania abbiamo già superato le duecentomila). Pochi ci avrebbero scommesso, nei mesi bui del primo lockdown, quando il vaccino sembrava lontanissimo. Invece, eccoci qui: consapevoli che non è ancora finita, convinti che finirà.
La storia del vaccino per il Covid è una grande epopea di ingegno umano, dinamismo imprenditoriale e qualità istituzionale. Ci aiuta a cogliere, se non proprio un paradigma, almeno delle indicazioni per la ripartenza. Le aziende più innovative hanno messo al lavoro i cervelli più brillanti, in un contesto in cui i risultati vengono premiati e celebrati secondo la metrica del profitto. Non è che imprese e individui siano mossi solo da questo. Non in questo caso, di sicuro: anzi, difficilmente dalla vendita del vaccino Big Pharma ricaverà grandi utili. E’ che il motivo, la legittimità e l’accettazione sociale del profitto hanno consentito negli anni di aggiungere conoscenze scientifiche a conoscenze scientifiche; migliorie organizzative a migliorie organizzative; capitale umano a capitale umano. E, in tal modo, hanno fatto sì che ci fosse un esercito di laboratori, studiosi, risorse che sono state mobilitate e sono arrivate al risultato più rapidamente di quanto molti sperassero. O, per essere più precisi: molto più in fretta di quanto la larga maggioranza delle persone creda. Anche grazie allo stato, beninteso. Su questo torneremo dopo. Sì, perché mentre il coronavirus dilagava da un paese all’altro, mentre portava via la vita di oltre 1,8 milioni di persone, il vaccino c’era già.
Non che sia stato tenuto nei magazzini per cattiveria. Prima di immettere un farmaco sul mercato, vanno condotti test complessi, onerosi e lunghi per accertare che sia efficace e che non produca conseguenze indesiderate. Forse i tempi autorizzativi avrebbero potuto essere ulteriormente compressi, anche più di quanto non sia stato fatto, ma non è questo il punto: il punto è che tutto quello che in questi mesi abbiamo deprecato – la globalizzazione, il cambio tecnologico, il neoliberismo – ha prodotto un sistema talmente efficiente, reattivo e dinamico da rispondere letteralmente in tempo reale a una minaccia così inattesa, insondabile e sconosciuta come il Sars-Cov-2. All’avvio del nuovo anno, questi fatti, talvolta ignorati o misconosciuti, meritano di essere messi in evidenza. Il vaccino: i successi del privato imprenditore Il vero miracolo, più ancora della disponibilità di diverse tipologie di vaccino in tempi così brevi, è quanto sia stato immediato, corale ed efficace lo sforzo per svilupparle. Il nuovo coronavirus ha iniziato a circolare in Cina verso la fine del 2019. Il 3 gennaio Pechino ha notificato l’epidemia all’Organizzazione mondiale della sanità, che sei giorni dopo ne ha confermato l’origine. Il 13 gennaio si è registrato il primo caso fuori dalla Cina, in Tailandia; il 16 in Giappone. Il primo malato negli Stati Uniti è comparso il 21 gennaio, in Europa (Francia) il 24 dello stesso mese. L’Italia ha scoperto il famigerato paziente zero una settimana dopo, il 31 gennaio. Il resto è, prima ancora che storia, esperienza.
Ebbene: il vaccino Moderna, approvato il 18 dicembre 2020 dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti, era in realtà virtualmente pronto già il 13 gennaio, quasi un anno prima della sua immissione in commercio. Come ha ricostruito David Wallace-Wells sull’Intelligencer, “era pronto prima ancora che la Cina riconoscesse che il morbo poteva trasmettersi da umano a umano, più di una settimana prima del primo caso confermato negli Stati Uniti. Quando un mese dopo venne annunciata la prima morte in America, il vaccino era già stato prodotto e inviato ai National Institutes of Health per l’avvio della fase 1 del trial clinico”. Dietro questo risultato c’è sicuramente un’intuizione fortunata: ma c’è, anche, quel tipo di preparazione e reattività che può venire solo dalla selezione e formazione di competenze e intelligenze elevatissime. Nel frattempo, si sono aggiunti altri prodotti. Pfizer/BioNTech hanno ricevuto il via libera nel Regno Unito il 2 dicembre, in Canada il 9, l’11 negli Usa e il 21 in Europa. AstraZeneca/Oxford hanno annunciato i risultati dei trial il 23 novembre e sono prossimi all’autorizzazione in Europa e America, mentre l’hanno avuta dal Regno Unito mercoledì scorso. Novavax e Johnson & Johnson procedono coi test e sperano di arrivare presto, come Sanophi e GlaxoSmithKline. Mosca e Pechino stanno già somministrando i rispettivi vaccini attraverso un insolito meccanismo di pre-autorizzazione, mentre in parallelo vengono ultimati i trial. In giro per il mondo ci sono almeno altri cinquanta di vaccini in fase di test o quasi, e gli esperti ritengono che in un paio di anni una ventina o più saranno sul mercato.
Contro il Covid si sono messe in moto forze potentissime, che si erano sviluppate in un contesto fieramente competitivo, grazie alle istituzioni della società libera
E’ difficile trovare un case study più schiacciante sui benefici del sistema capitalistico. In quello che una volta si chiamava “mondo libero”, una pluralità di soggetti privati si sono messi al lavoro e sono pervenuti, a tempo di record, a specialità alternative. Proprio in questi giorni vengono somministrate ai pazienti e rappresentano il primo, vero game changer da quando il Covid ha fatto il suo ingresso prepotente e drammatico nella nostra vita. Al contrario, nei sistemi autoritari – come quelli cinese e russo – i regimi hanno sì chiamato a raccolta ogni risorsa, arrivando a un risultato in tempi analoghi ai paesi democratici. Ma a un costo: svolgere i test sull’intera popolazione, senza avere piena contezza dell’efficacia dei preparati che sono via via inoculati ai cittadini. Intendiamoci: si può argomentare che le autorità occidentali hanno preso più tempo del necessario. Che i vaccini – quanto meno quelli di Moderna e Pfizer/BioNTech – avrebbero potuto essere autorizzati prima. Lo stesso Anthony Fauci ha spiegato che, se l’approvazione fosse arrivata troppo presto, si sarebbero alimentati complottismi e sospetti.
Non è chiaro se queste considerazioni rappresentino un’opinione personale o se abbiano effettivamente influenzato la Fda. Inoltre, ancora una volta si ripropone il trade-off sui tempi di approvazione dei farmaci: è meglio correre dei rischi mettendo in circolazione un medicinale potenzialmente inefficace o dannoso, oppure attendere gli esiti dei test privando nel frattempo i possibili beneficiari del trattamento? Esistono vie intermedie, come quella suggerita da John Cochrane di vendere da subito il vaccino, avvertendo che i risultati dei test sono incompleti? Avrebbe senso fare ricorso ai cosiddetti “challenge trial”, attraverso cui i volontari – dopo aver assunto il vaccino – si espongono direttamente al virus in laboratorio? Sono domande complicate, la cui risposta non dipende solo da fatti oggettivi o verificabili ma anche dalle preferenze e dall’avversione al rischio individuali e sociali. Ma c’è un aspetto cruciale: contro il Covid si sono messe in moto forze potentissime, che si erano sviluppate in un contesto fieramente competitivo, grazie alle istituzioni della società libera. Qualcuno obietta che, senza i contributi degli stati, si sarebbe andati poco lontano. Quindi in fondo questo successo va attribuito, almeno pro quota, allo stato imprenditore.
Tutte le principali aziende hanno beneficiato di sussidi (o impegni d’acquisto) governativi: i denari pubblici hanno coperto all’incirca il 18 per cento dei costi di sviluppo di AstraZeneca, il 15 per cento di Pfizer/BioNTech, la quasi totalità dell’investimento di Moderna, il 44 per cento di Johnson & Johnson e così via. I fondi hanno senza dubbio aiutato a moltiplicare le attività di ricerca: bisogna però chiedersi quanto e come le cose sarebbero andate diversamente, in assenza di quei finanziamenti. Occorre riconoscere che hanno concimato un terreno fertile: non a caso, è nei paesi più economicamente dinamici che essi hanno contribuito al successo delle attività di R&D. Non basta un assegno generoso (o la promessa di acquistare volumi prestabiliti) a dichiarare il trionfo dello Stato imprenditore.
Di questo passo, si potrebbe attribuirgli pressoché qualunque innovazione. Basterebbe sostenere che gli inventori hanno studiato nelle scuole pubbliche, viaggiato sui treni dello stato, beneficiato di finanziamenti alla ricerca. E’ il caso di BioNTech, la società che – assieme a Pfizer – ha completato i test clinici e ricevuto l’autorizzazione. BioNTech aveva ricevuto diversi finanziamenti, dal 2013 in poi, con l’obiettivo di sviluppare la tecnologia a Rna messaggero che è il cuore del suo vaccino. Tuttavia, il finanziamento riguardava le cure anticancro, certo non un vaccino per una malattia sconosciuta. L’ingegno dei singoli, non la pianificazione dello stato, ha intuito le potenzialità di quelle tecniche e le loro possibili applicazioni nella lotta contro il virus. Poi sono arrivati ulteriori fondi, quando i risultati erano promettenti e si trattava di accelerare. Che tali fondi siano stati utili non significa che siano stati essenziali. Gran parte del finanziamento originario delle startup biotecnologiche, come appunto BioNTech, viene da capitali privati. Semmai, come ha scritto Simona Heidempergher su LeoniBlog, “l’intervento pubblico può generare una errata allocazione delle risorse e, soprattutto, portare a situazioni nelle quali non si riesce a tarare l’impegno sui risultati effettivi di un certo programma di ricerca. Basta vedere la scommessa dei diversi stati europei su un vaccino Sanofi GSK contro il Covid, mentre questo è per ora in ritardo sulla tabella di marcia”. Anche nel caso dei vaccini, il nazionalismo economico è una ricetta velenosa.
Torniamo ai finanziamenti pubblici e al modo in cui, nella pratica, hanno supportato la ricerca farmaceutica di una soluzione contro il Covid. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump ha varato una colossale operazione denominata Warp Speed (un riferimento all’ipervelocità di Star Trek). La peculiarità di questo programma non sta solo nella quantità degli stanziamenti (circa 10 miliardi di dollari) a copertura dei costi, ma anche nella previsione di speciali corsie in parallelo per i trial clinici, sotto la supervisione del governo. Inoltre, la Casa Bianca si accolla una quota del rischio finanziario (ma non farmaceutico) dei prodotti che partecipano all’operazione. Al momento hanno aderito sei imprese o consorzi (Johnson & Johnson, Astrazeneca-Oxford e Vaccitech, Moderna, Novavax, Merck e IAVI, Sanofi e GlaxoSmithKline). Pfizer, la partner americana di BioNTech, ha scelto di non fare uso di Warp Speed.
Infine, tutti gli stati hanno pre-acquistato ingenti dosi dei vaccini, in modo tale da garantirsi l’approvvigionamento e indurre le imprese farmaceutiche a non lesinare nella ricerca di nuovi prodotti o nella predisposizione di capacità produttiva. D’altronde, la distribuzione dei vaccini non riguarda trattamenti individuali, ma strumenti di salute pubblica. In un mondo nel quale i sistemi sanitari sono in gran parte nazionali, e in cui gli stati intervengono quotidianamente da monopsonisti (o quasi) nei confronti di Big Pharma, non poteva essere altrimenti. Insomma, nella vicenda del vaccino, lo stato entra ma con ruoli del tutto peculiari. Da un lato, si accolla rischi finanziari che sono strumentali all’esercizio delle sue stesse prerogative. Dall’altro, introduce elementi di semplificazione procedurale che, in un certo senso, non rappresentano un ampliamento ma una auto-limitazione dello stato stesso. Ci si potrebbe anzi chiedere se le procedure non potrebbero essere rese strutturalmente più leggere e se gli appesantimenti burocratici che consideriamo tollerabili in tempi normali non siano, in realtà, eccessivi. Ma allora, dove sta lo stato imprenditore nell’odissea del vaccino anti-coronavirus?
Lo stato imprenditore
Rispondere è tutt’altro che banale, anche perché i teorici dello stato imprenditore sono sempre vaghi nel descriverne i confini. Una caratteristica tipica delle religioni: la promessa del paradiso non contiene mai informazioni dettagliate su come saranno fatti i luoghi celesti. Una mancanza accettabile se si parla dell’aldilà, meno tollerabile quando invece si ha la pretesa di costruire l’eden qui sulla terra. Per esempio, Mariana Mazzucato nei suoi libri non chiarisce come lo stato imprenditore dovrebbe – concretamente – funzionare. Attribuisce alle decisioni o all’influenza pubbliche gran parte delle innovazioni di cui oggi godiamo (dall’energia elettrica allo smartphone) sminuendo il ruolo che il dinamismo individuale e sociale, le illuminazioni degli imprenditori, la qualità delle istituzioni e persino il caso hanno avuto nel determinarne il successo. E ignorando i canali attraverso cui lo stato ha veicolato il suo sostegno. Quale che sia il contributo pubblico (diretto o indiretto) di cui hanno beneficiato, è difficile immaginare il mondo moderno senza il talento non solo tecnologico, ma anche commerciale, di Thomas Edison e Steve Jobs. Mazzucato & Co. insistono sullo stato come “orientatore” dell’attività imprenditoriale, più che come proprietario in senso stretto delle imprese.
Dietro l’innovazione, la fortuna, la fantasia, talvolta la follia. L’industria farmaceutica, non un esercito in marcia ma un mare in ebollizione. Lo stimolo della spesa militare secondo i fautori dello stato imprenditore. La direzionalità degli investimenti pubblici e l’innovazione che nasce da tentativi ed errori innovazione industria farmaceutica mare in ebollizione investimenti pubblici tentativi ed errori.
In termini pratici, la differenza può non essere enorme. Si rischia di perdere di vista che dietro l’innovazione ci sono anche la fortuna, la fantasia, talvolta la follia. O, per dirlo in termini più formali, la capacità di cogliere, comprendere e usare quelle informazioni disperse che non possono essere raccolte e messe a disposizione di un unico cervello centrale incaricato di indirizzare, coordinare, incentivare e dirigere. A questo proposito, l’economista Israel Kirzner parlava del vincolo della “ignoranza pura”: noi non sappiamo di non sapere ciò che non sappiamo. Non sapevamo di avere bisogno dello smartphone prima che qualcuno ce lo mettesse in mano. Perfino in quel momento, non potevamo immaginare che un giorno lo avremmo usato per guardare film e ordinare la pizza. Se abbiamo scoperto nuovi prodotti (il telefonino intelligente) e utilizzi (il food delivery) è perché una molteplicità di imprenditori o inventori, molti dei quali rimasti senza nome o presto dimenticati, hanno sperimentato tecnologie e usi. Nella maggior parte dei casi senza successo, ed è la principale ragione per cui ne abbiamo perso le tracce. Ma, occasionalmente, producendo un avanzamento collettivo, che ha trasportato l’intera società in una condizione migliore rispetto a prima.
Questo processo di tentativo ed errore è possibile, per definizione, solo all’interno di un framework decentralizzato, evolutivo, di coordinamento spontaneo: i burocrati sovietici che sfogliavano i cataloghi occidentali per scoprire il “giusto prezzo” di beni e servizi ne sono la rappresentazione più comica e tragica. La vaghezza teorica non impedisce di avanzare idee concrete in casi specifici. In relazione al vaccino, Mazzucato (assieme a Henry Lishi Li) aveva proposto di nazionalizzare l’industria farmaceutica per rispondere al Covid. Mentre lo scriveva, a marzo, Moderna aveva già disegnato la molecola da un mese e mezzo, e ne aveva nel frattempo inviato il prototipo ai National Institutes of Health. L’industria farmaceutica è capace di sprigionare tanto spirito innovativo proprio perché non è un esercito in marcia, ma un mare in ebollizione. Tant’è che i vaccini a Rna messaggero nascono da ricerche che, come abbiamo visto, guardavano a obiettivi affatto diversi. E, oggi, si rivelano determinanti nella lotta al virus grazie alla loro scalabilità: anche qui si innestano i finanziamenti pubblici, grazie ai quali gli stati possono garantirsi una adeguata produzione del vaccino sussidiando la realizzazione di ulteriore capacità produttiva.
Lo stato compratore sembra fare bene il suo mestiere, in questo caso. Vedremo nelle prossime settimane come se la caverà lo stato inoculatore. Ma non chiamatelo stato imprenditore. Mazzucato ragiona per aneddoti, quindi sarà difficile convincerla del contrario. Eppure, perfino all’attuale consigliera economica di Giuseppe Conte (nonché consigliera d’amministrazione dell’Enel) potrebbero sorgere dei dubbi, se leggesse l’ultimo lavoro di Vladimir Buldyrev, Fabio Pammolli, Massimo Riccaboni e Harry Stanley, The Rise and Fall of Business Firms: A Stochastic Framework on Innovation, Creative Destruction and Growth. Il volume si occupa – tra l’altro – dell’innovazione nell’industria farmaceutica, e mostra che le imprese crescono (in termini di addetti e fatturato) man mano che colgono nuove opportunità di business, cioè nuovi prodotti o linee produttive. Il progresso sociale è mosso proprio da questa frenetica attività di entry/exit, attraverso cui i consumatori (inclusi i sistemi sanitari nazionali) premiano i prodotti migliori coi propri acquisti.
La “direzionalità” dell’innovazione non viene dalla benevolenza di Big Government, ma dalla cura che Big Pharma ha del proprio interesse. I profitti delle imprese farmaceutiche nascono dalla capacità di capire e risolvere i problemi sanitari delle persone e delle comunità: non dai decreti dei ministeri. Ai quali, d’altronde, non si può chiedere ciò che non possono dare. Gli apparati dello stato hanno un compito diverso e fondamentale: spetta a loro garantire libertà (anche economica) e giustizia, cioè curare l’ambiente nelle quale le imprese operano, competono e si evolvono. I fautori dello stato imprenditore, a questo punto, calano il jolly: la spesa militare. Gran parte delle innovazioni che migliorano la nostra vita, dicono, sono debitrici degli investimenti bellici. Per fare solo due esempi, l’energia nucleare lo è della Seconda guerra mondiale, internet della Guerra fredda. Questa tesi sembra trovare supporto in una letteratura piuttosto ampia. Tra i tanti, Enrico Moretti, Claudia Steinwender e John Van Reenen hanno mostrato che “un aumento del 10 per cento delle attività di ricerca e sviluppo finanziate dai governi ne genera un 4,3 per cento addizionale finanziato dai privati… Le nostre stime implicano che alcune delle differenze negli investimenti privati in ricerca e sviluppo tra i diversi paesi sono dovute alle differenze alle spese in ricerca e sviluppo legate alla difesa”. Tale conclusione è empiricamente solida, ma bisogna essere cauti nel trarne inferenze nell’ambito della politica economica. Intanto, lo stimolo è riconducibile – appunto – alla spesa militare, molto meno ad altre branche nelle quali i governi finanziano direttamente le attività di ricerca e sviluppo e ne stabiliscono gli obiettivi.
Se prendiamo sul serio tale tesi, dovremmo anzitutto invocarne di più. Finiremmo per dare ragione a Donald Trump, che durante i quattro anni del suo mandato ha ingaggiato un duello con diversi paesi europei (tra cui l’Italia) che non raggiungevano il target Nato del 2 per cento del pil. Quanti, tra i sostenitori dello stato imprenditore, sarebbero pronti a scendere in piazza per chiedere più spesa militare? L’obiezione cruciale viene però da Deirdre McCloskey e Alberto Mingardi nel recente The Myth of the Entrepreneurial State. Prendiamo due innovazioni spesso attribuite alla spesa militare: i cilindri dei motori a scoppio (perfezionati grazie alla ricerca sull’alesatura di precisione dei cannoni) e le tecniche per la produzione in serie di viti e bulloni (dovute al lavoro di Henry Maudslay al Royal Arsenal britannico). “La domanda rilevante – scrivono – è cosa sarebbe accaduto, ai cilindri e a Maudslay, senza la guerra. La Guerra dei trent’anni, che uccise un terzo della popolazione tedesca, non portò la Germania a eccellere nel vapore e nell’acciaio”.
Insomma: la guerra e la spesa militare possono certamente contribuire alla scoperta, o al miglioramento, di tecnologie che poi trovano utilizzi civili. Ma non c’è ragione di credere che, senza l’apparato bellico, quelle stesse scoperte non sarebbero state fatte, e ancora meno che le risorse (finanziarie, umane e fisiche) impiegate negli sforzi militari sarebbero rimaste inutilizzate o sterili. In fondo, l’analogia tra il Covid e la guerra, tanto spesso abusata, in questo caso torna utile: l’enorme sforzo di ricerca e di predisposizione di piattaforme produttive che ha consentito di avere il vaccino, in futuro lascerà un’eredità grazie alla quale altri farmaci potranno essere sviluppati e prodotti più rapidamente. In un certo senso, quindi, possiamo dire che, grazie al coronavirus, abbiamo un sistema della ricerca medica e farmacologica più forte. Ciò non significa, in nessun modo, che dovremmo essere grati al Covid o, peggio ancora, dovremmo invocare più epidemie per catturarne i benefici di lungo termine. Tali benefici esistono, ma sono immensamente inferiori ai costi: vale per la pandemia, e vale per la guerra.
Lezioni per il dopo
Lo stato imprenditore, insomma, poggia più su un pregiudizio e una lettura selettiva della storia dell’innovazione che su una teoria articolata e falsificabile. Eppure, non serve scomodare lo stato per assegnargli una mission impossible nel campo dell’innovazione: in quello stesso campo ne ha già una che è possibile e necessary. Solo che sta agli antipodi di ciò che Mazzucato & Co vorrebbero fargli fare. La storia dei vaccini ci aiuta a coglierne i contorni. Il tempo di immissione in commercio delle nuove specialità è stato così breve perché le imprese erano già pronte. L’enorme ammontare di risorse (anche pubbliche) è stato utile: ma i soldi hanno prodotto valore, anziché sperpero, proprio perché le aziende competevano in un mercato dinamico e innovativo. Molti hanno ricevuto, nei giorni scorsi, una suggestiva infografica di Nature che confrontava i tempi di sviluppo del vaccino anti Covid con quelli molto di malattie quali l’ebola, l’epatite B, il morbillo, eccetera. L’autore dell’articolo, Philip Ball, spiegava che “il mondo è stato in grado di sviluppare i vaccini per il Covid-19 così velocemente grazie ad anni di ricerca precedente su virus collegati e su metodi più rapidi per produrre i vaccini, finanziamenti enormi che hanno consentito alle imprese di condurre diversi test in parallelo, e i regolatori che si sono mossi più veloci del normale”.
Ci sono due aspetti non casuali ma raramente messi a fuoco. Primo: a dispetto della disastrosa gestione della pandemia, i paesi che hanno dato il contributo più importante allo sviluppo dei vaccini (e che dunque ne stanno usufruendo per primi) sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Secondo: gli stessi teorici dello stato imprenditore, Mazzucato in testa, non indicano mai – come modello o ispirazione – qualche stato “pesante”, che si è contraddistinto per l’estensione o la profondità dell’interventismo pubblico. Chiamano sempre in causa gli Usa, e talvolta il Regno Unito, tipicamente per programmi legati alla Guerra fredda (quelle ironie!). Il paradosso è che, anche quando questi programmi hanno effettivamente prodotto innovazioni rivoluzionarie, generalmente ciò è accaduto in via inintenzionale. Per esempio, quando si attribuisce lo sviluppo di internet al programma Darpa (cosa corretta solo in parte), in realtà ci si riferisce a un prodotto (l’email) che in quel programma era inessenziale e privo di interesse. Gli investimenti militari, argomentano McCloskey e Mingardi, “ricordano i viaggi di Colombo: lo stato imprenditore avrà anche scoperto le Indie occidentali, ma intendeva dirigersi verso le Indie orientali”.
Un conto, insomma, è la direzionalità degli investimenti pubblici – la cosiddetta “mission-oriented innovation” – altra cosa è la casualità per cui alcuni aspetti non programmati possano rivelarsi, ex post, di grande utilità per scopi diversi. La storia del vaccino dice dunque molte cose. Dovremmo farne tesoro nel momento in cui si moltiplicano gli allarmi per le imprese zombie – da ultimi Mario Draghi e Raghuram Rajan nel rapporto del Group of Thirty. Sono, gli zombie, quelle aziende che vivacchiano (spesso grazie ai sussidi), senza essere capaci di esprimere vantaggi competitivi. Restano sospese tra la vita e la morte. In tal modo, non solo impongono un onere al sistema economico in generale, ma bloccano capitale e lavoro in utilizzi improduttivi. Questo problema, dopo un anno di spesa pubblica a gogò, è enorme in tutto il mondo, ma lo è particolarmente in un paese come l’Italia la cui produttività è rimasta stagnante per decenni. Eppure, adesso più che mai è chiaro: il virus alla fine non sarà sconfitto dagli zombie, ma dalle imprese più vitali.
Come fare ad avere più di queste, e meno di quelli? Tale domanda dovrebbe ossessionare i nostri policy-maker, invece sembra volteggiare inosservata davanti ai loro occhi. Il ministero che, secondo la sua stessa denominazione, si occupa di sviluppo economico, dedica gran parte dell’attività all’erogazione di sussidi e bonus oppure ai tavoli di crisi (spesso cercando negli uni la soluzione degli altri). Sicché, validi funzionari e dirigenti sono distolti dalla ricerca di strumenti per fertilizzare il mercato, e costretti a occuparsi ora del doping, ora dell’esorcismo dell’economia nazionale. Il ministro Stefano Patuanelli dovrebbe chiedersi se sia un valido impiego del capitale umano alle sue dipendenze. Per tornare a crescere è cruciale liberare le forze e l’ingegno degli imprenditori. Riscoprire quello che McCloskey e Mingardi chiamano “innovismo” e che, da una prospettiva diversa, Ed Phelps chiama “dinamismo” (Dynamism. The Values That Drive Innovation, Job Satisfaction, and Economic Growth, con Raicho Bojilov, Hian Teck Hoon e Gylfi Zoega). Alla base – prima ancora che con le caratteristiche istituzionali dei diversi paesi – ci sono i valori che hanno consentito allo sviluppo umano di esplodere dalla Rivoluzione industriale in poi. Questi valori, cioè l’individualismo, la predisposizione a raccogliere le sfide e la libera espressione di sé, sono stati determinanti, nella storia, a trasformare le mere invenzioni nell’innesco del progresso economico, individuale e sociale. Il motore a scoppio, l’energia elettrica, il personal computer non hanno solo moltiplicato la produttività o liberato l’uomo dalla fatica. Sono stati, anche e soprattutto, strumenti di empowerment individuale. Ma questo è accaduto perché si inserivano in una cornice nella quale il profitto e la realizzazione di sé erano obiettivi socialmente riconosciuti; e la competizione era il meccanismo attraverso cui miliardi di decisioni autonome dei consumatori (non “governate” o “guidate” da alcuno) decretavano il successo o l’insuccesso delle imprese. Gli individui, con le loro scelte, indirizzavano risorse e investimenti. I funzionari pubblici si occupavano di garantire lo stato di diritto, la proprietà privata, il rispetto dei contratti. Se le burocrazie e la politica allocano gli investimenti, finisce che del resto non si occupa più nessuno.
Lo stato imprenditore rappresenta la negazione di innovismo e dinamismo: sostituisce le preferenze di pochi ottimati alla libera determinazione di miliardi di persone. Le società più vitali sono quelle che garantiscono la libertà e l’espressione degli individui, in ogni ambito della loro vita (anche economica). L’uscita dal Covid-19 ci obbliga a ritrovare quel bacino di prosperità che paesi come il nostro sembrano aver perso: è importante usare le risorse europee e nazionali per liberare gli individui, non per indirizzarne investimenti e comportamenti. L’innovazione nasce sempre da tentativi ed errori: sbagliare (e pagarne le conseguenze) è una delle stigmate della libertà economica. In una società plurale nessuno, individuo o impresa, dovrebbe essere trattato come il rematore di una galera, che agita il remo al suono del tamburo per muoversi verso una meta stabilita da altri.
Carlo Stagnaro
Il Foglio
5 Gennaio 2021