Parla Pierangelo Lora Aprile segretario scientifico Simg: non solo terapie di fine vita ma “nuovi occhiali” nel rapporto con i malati lungo il percorso che avvicina alla fine.
Il varo della legge sul fine vita, il 14 dicembre, non ha affatto chiuso il confronto sui grandi temi che cerca di risolvere Il primo caso di cronaca (la morte di Marina Ripa di Meana) ha portato l’attenzione sul diritto alle cure palliative, troppo spesso negato
«Fallo sapere, fatelo sapere»: era stato l’ultimo appello di Marina Ripa di Meana prima di morire di cancro il 4 gennaio. Aveva scoperto – e voleva dirci con l’ultimo fiato – che per liberarsi dalla sofferenza, «quando il momento della fine è davvero giunto», «non si è costretti ad andare in Svizzera come io credevo di dover fare », perché esiste «la via italiana delle cure palliative, con la sedazione profonda ». Aveva scoperto ciò che la legge prevede da otto anni (la 38 del 2010) ma che spesso resta una chimera. Morire senza soffrire è dunque un diritto normato. Ma prima della morte? Nei mesi precedenti siamo condannati al dolore? È una delle domande più frequenti che l’appello della Ripa di Meana ha suscitato nel dibattito pubblico. «È fondamentale sapere che le cure palliative non entrano in campo alla fine della vita, come se solo vicini alla morte avessimo il diritto di non soffrire, ma mesi prima, anche anni», chiarisce Pierangelo Lora Aprile, segretario scientifico della Simg, la Società italiana di Medicina generale, ovvero dei medici di famiglia. Immaginiamo una staffetta, dove prima sono i medici di medicina generale a occuparsi dell’«approccio palliativo», e solo poi, quando è arrivato il momento in cui l’assistenza diventa complessa, il paziente approda ai medici palliativisti, con risposte personalizzate sui reali bisogni (la sedazione profonda ad esempio è necessaria in meno del 10% dei pazienti in fase terminale).
Quali sono i pazienti cui è rivolto l’«approccio palliativo»?
Sono i portatori di malattie croniche in fase avanzata e con una limitata attesa di vita. Non i malati terminali, quindi, ma persone il cui orizzonte temporale si sta restringendo.
Quali i criteri per identificarli?
Usiamo la cosiddetta ‘domanda sorprendente’: «Saresti sorpreso se questa persona nei prossimi 12/24 mesi morisse? », ci chiediamo. Se non mi sorprende, quel mio assistito entra tra le persone per me speciali e da quel giorno ‘cambio gli occhiali’, valuto in modo globale i suoi bisogni, che non sono più solo clinici ma di cure palliative in senso lato, ovvero quelle attenzioni multidimensionali che fanno la differenza: ad esempio, devo sapere se è abbiente o ha la pensione minima, se vive al terzo piano senza ascensore, se ha figli vicini o è solo al mondo, se possiede risorse spirituali e risposte esistenziali o ne è sguarnito… L’attenzione a tutti questi bisogni si chiama ‘approccio palliativo’: a questo punto le cure mediche che già riceveva restano, ma rimodulate perché mi aspetto che entro l’anno arrivi al ‘confine alto della vita’, e inizio a valutare le sue preferenze, che nei limiti del possibile cerco di esaudire.
L’età è un parametro?
Non necessariamente: se il paziente ha 90 anni ma la risposta alla domanda sorprendente è ‘sì’ (mi sorprenderei se morisse), può avere tanta vita davanti, tante passioni, tante attività. Ed è doveroso che le persegua.
Una vera e propria alleanza terapeutica, quasi un patto di sangue tra medico di famiglia e paziente…
Il medico di medicina generale è l’unico ad avere il privilegio di tracciare questo percorso seduto al tavolo di cucina con il suo assistito, la madre, la zia, il vicino di casa, insomma, con le persone significative per il malato. È quello che chiamiamo ‘ambiente di verità’, un percorso con tutti allineati sul fatto che, in maniera naturale, si sta avvicinando il confine alto della vita. Gli studi dimostrano che le persone consapevoli vivono meglio, non corrono al pronto soccorso al primo forte sintomo perché sono state preparate da tempo, sanno che esistono le cure palliative e le ricevono a casa propria, senza panico. Dove c’è impreparazione, invece, i pazienti allo stadio terminale vengono trascinati al pronto soccorso e lì restano intubati in rianimazione, a morire da soli.
Dunque: la prima fase (l’approccio palliativo) spetta al medico di famiglia. La seconda fase, nelle ultime settimane di vita, è quella che la legge 38 e più recentemente i Livelli essenziali di assistenza (Lea) chiamano ‘la rete locale di cure palliative’ e spetta a un’équipe dedicata, composta dal palliativista, l’assistente sociale, lo psicologo, l’assistente spirituale, gli infermieri specializzati… Questo sulla carta. Ma nella realtà?
La tragedia è che spesso la ‘rete locale di cure palliative’ manco esiste. E, anche quando esiste, a volte i pazienti vi arrivano in extremis, ormai in fase terminale: sono i medici di famiglia a determinare questo passaggio, ma in Italia sono 40mila e la loro preparazione è disomogenea. Esistono aree di eccellenza (storicamente in Lombardia, ora anche in altre regioni), ma è ancora troppo poco. Un’altra lacuna è pensare che le cure palliative siano riservate ai malati oncologici, mentre l’80% dei pazienti con sofferenze e bisogni hanno demenze, cardiopatie, insufficienze respiratorie e renali con sintomi devastanti, come il soffocamento… Deve esistere per tutti un’’etica dell’accompagnamento’ o dell’’abcd’: Acome alleviare i sintomi, Bcome bisogni da valutare, C come cure proporzionate. Infine D come decodificare le richieste. Mi spiego: chi soffre ci dice spesso ‘non ce la faccio più, meglio morire’, e la risposta non è l’eutanasia o il suicidio in Svizzera, bensì le cure. Sarebbe ipocrita negare che qualcuno chiede l’eutanasia – a me è capitato una sola volta in tutta la carriera – ma è indubbio che le cure palliative riducono ai minimi termini richieste dettate dalla sofferenza.
C’è sovrapposizione tra la legge 38 e la nuova legge sulle Disposizioni anticipate di trattamento (Dat)?
Sono cose diverse. Dopo la famosa ‘domanda sorprendente’ io mi segno i desideri del paziente il cui orizzonte di vita si sta già restringendo (se vorrà morire a casa o meno, se accetta manovre invasive o no…). Le Dat sono invece dichiarazioni che si scrivono in tempi non sospetti, nel timore in futuro di non essere in condizione di decidere. Sono leggi complementari. Trovo però sbagliato il termine ‘disposizioni’, avrei preferito ‘dichiarazioni’ anticipate di trattamento. Sia chiaro comunque che eutanasia e suicidio assistito restano reati, procedure intenzionalmente messe in atto per uccidere, mentre con le Dat chiedo ‘non fatemi questo’. Ma, soprattutto, le cure palliative non sono mai eutanasiche: in alcuni casi sospendere alimentazione e idratazione nelle ultime ore di vita è una buona pratica, mantenerle aumenterebbe solo le sofferenze e renderebbe difficile il respiro. Sarebbe mala pratica.
Un caso come Eluana Englaro, cui tolsero acqua e cibo al fine di condurla alla morte, non c’entra nulla, dunque?
Assolutamente no. Parliamo solo di un soggetto ormai alla fine dei suoi giorni, allora anche le fiale di morfina sono finalizzate a ridurre il dolore, a togliere un sintomo incoercibile, mai a uccidere. Applicare bene le leggi, sia la 38 che quella sulle Dat, serve anche a ribaltare le derive eutanasiche: una persona rimane persona indipendentemente dalle qualità che ha, guai se valutassimo il valore di una persona dalla sua capacità di compiere azioni.
Il momento della morte può essere anche quello della preghiera. La sedazione palliativa non rischia di rubarci tutto questo?
Un credente può persino sublimare il dolore e rinunciare alla terapia, offrendo le proprie sofferenze a Gesù… deve comunque essere una scelta ponderata della persona e non del familiare, o dei curanti! Ma di fronte alla forte sofferenza anche il credente sa valutare il tempo della preghiera e quello in cui desidera chiudere gli occhi in attesa di un sereno passaggio.
Lucia Bellaspiga
Avvenire.it, 27 gennaio 2018