L’analisi di quanto accaduto a Washington non può limitarsi alla superficie. Riprendendo le lezioni di maestri come Alexis de Tocqueville, José Ortega y Gasset e Johan Huizinga, i sistemi politico-sociali occidentali sono da tempo seduti su un vulcano. I vulcani sono strutture complesse, hanno una parte visibile esterna, e una parte non visibile, interna alla crosta, animata da un lavorio nascosto, che prosegue da migliaia di anni: non visti, si fanno strada i prodotti materiali di quel lavorio, che al verificarsi di una serie di circostanze fuoriescono, con eruzioni che possono essere tranquille (effusive) o esplosive. Le scene dell’occupazione del Congresso USA manifestano l’eruzione di un vulcano, sul quale sono sedute le postmoderne democrazie occidentali: un vulcano che non è diventato attivo dall’inizio della presidenza Trump, men che meno dagli ultimi due agitati mesi della politica americana.
Volendo semplificare, quella di ieri è stata una manifestazione di “antipolitica”, “anti-sistema”, con radici antiche, che ha poco a che fare con “trumpismo”, “sovranismo”,, “fascismo” e con qualunque altra banale variazione sul tema, utile a liquidare con faciloneria questioni complesse. Certo, l’antipolitica nei sistemi politico sociali occidentali ha assunto in questi decenni forme espressive peculiari, che dipendono dalla contingenza del contesto e dalle circostanze storiche. Stavolta l’apparente innesco é stato il rifiuto dell’esito per l’elezione del Presidente, che il Congresso si apprestava a ratificare, ma le radici della rabbia “antisistema” sono profonde, e presentano aspetti comuni all’intero mondo occidentale. Se si vuole essere seri e si hanno davvero a cuore le sorti delle democrazie occidentali occorre trascendere dalla miopia della contingenza e dalle istantanee Trump, elezioni presidenziali, presunti brogli, partito repubblicano che non segue più Trump, ecc.
Per rendere ancora più semplice una riflessione che richiederebbe altri tempi e spazi, ciò che abbiamo visto a Washington non è diverso nelle radici ultime da ciò che è accaduto in Italia quando venivano lanciate monetine a leader politici, e un cappio sventolava in Parlamento, e soprattutto durante i “Vaffa day” nel 2007 e nel 2008. Andiamo a rivedere gli slogan dei “Vaffa-day”, o anche i recenti auspici di abolizione del Parlamento formulati dall’ideatore e promotore del moVimento nato sui “Vaffa”: non sono così lontani da quelli risuonati a Washington nel giorno dell’Epifania. Mutano i tempi e le modalità di manifestazione del sintomo, ma la malattia è unica.
Il gesto di occupare il Congresso, di una violenza simbolica senza precedenti, è avvenuto non contro una parte politica, ma contro il Congresso nel suo insieme, riunito in seduta comune, Partito repubblicano compreso, contro il quale si indirizzava in quota parte il disappunto dei manifestanti, e si era indirizzato qualche ora prima il disappunto di Trump. Se un tipo seminudo e pittorescamente vestito occupa lo scranno più altro del Congresso con fare oltraggioso non pare potersi dire ce l’abbia esclusivamente con i “Democrats”, ma con tutto ciò che quello scranno e quell’aula rappresentano.
Già durante le primarie del 2016 con Trump si era manifestata una spinta antipolitica, simile a quella coincisa in Italia con l’entrata in scena del MoVimento 5 Stelle, ma le caratteristiche del sistema politico americano rendevano impossibile che quella spinta si esprimesse fuori dai due partiti tradizionali: essa semplicemente occupava gli spazi disponibili. Grazie a quella spinta antisistema Trump vinse le primarie e ottenne la candidatura. Da due mesi a questa parte, dopo la parentesi presidenziale che lo ha costretto a istituzionalizzarsi, se pure molto parzialmente, egli sembra avere dismesso i panni del conservatore, che qualche buona cosa pure hanno prodotto in questi quattro anni, per tornare a vestire quelli del leader antisistema. La giornata del 6, con il Partito Repubblicano che da Mike Pence a Mitch McConnell resta interamente nel solco della dialettica istituzionale, e con Trump che invece in tutta risposta dice alla folla “Anche il Partito Repubblicano è morto, Vaffa anche al Partito Repubblican”, segna definitivamente questo passaggio/ritorno.
Ciò che si è manifestato due giorni fa – e lo stesso Trump – non è dunque la malattia, ma un sintomo. Considerare che il problema sia Trump e illudersi che la sua uscita di scena sia sufficiente a guarire il paziente, significa continuare a far avanzare la malattia, e lasciare che il magma cresca e si espanda sotto la crosta. Significa non cogliere le ragioni delle tensioni antisistemiche – il distacco tra popolo ed elite, la mancanza di corpi intermedi, tutti ideologicamente distrutti, l’insostenibile oppressione della cappa culturale imposta dal politicamente corretto e dai “nuovi diritti”, la coriandolizzazzione della società, la rimozione del fattore religioso dalla sfera pubblica e l’aggressione di esso nella sfera privata -, ma continuare ad alimentarle: non è mettendo un tappo a un vulcano che si evitano le eruzioni, anzi in questo modo aumentano pressione e temperatura interne, e si favorisce una nuova eruzione più violenta della prima. Se le sedicenti elite, i pasdaran delle “magnifiche sorti e progressive” non smettono di autoassolversi guardando il dito anziché la luna, quella del 6 a Washington sarà una delle numerose manifestazioni della profonda crisi delle democrazie occidentale che vedremo nel futuro prossimo e meno prossimo.
Secondo Ernst-Wolfgang Böckenförde “lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è più in grado di garantire”. Più di recente Giovanni Orsina, nel suo magistrale “La democrazia del narcisismo” (Marsilio, 2018) ha chiosato che la democrazia ha promesso a ciascuno di avere assoluto e illimitato controllo sulla propria esistenza, con la conseguenza che ciascuno oggi pretende che quella promessa sia mantenuta. Quello che è accaduto in Washington DC nella serata dell’Epifania 2021 ha molto più a che fare con questo che non con “the Donald”.
Francesco Cavallo
Gen 8, 2021