La pandemia ha portato con sé un diluvio di numeri. Bollettini quotidiani con il numero dei casi, delle vittime e dei tamponi fatti. Poi è arrivato l’indice Rt, il tasso di positività e i primi conteggi sui vaccini. È facile perdersi in questa infinità di dati. Alla fine dell’anno l’Istat ha pubblicato nuove rilevazioni in merito al tasso di mortalità che vanno contestualizzate e spiegate.
Numeri preoccupanti che raccontano del debito che il Paese ha pagato alla pandemia. Come ha evidenziato Federico Fubini sul Corriere della Sera, nel periodo tra marzo e novembre del 2020 l’Italia ha visto un incremento dei decessi rispetto alla media del periodo precedente di 85 mila persone. Nel lasso di tempo considerato hanno infatti perso la vita 547.369 italiani rispetto alla media di 461.746 calcolata nel quadriennio precedente.
Un’Italia a macchia di leopardo
La fredda contabilità ci dice che la mortalità è cresciuta del 19% nel giro di un anno. Questo numero racconta però molto poco la realtà che ci circonda. Per avere un quadro più completo e veritiero di come la pandemia ha colpito alcune zone più di altre, è necessario gettare uno sguardo sui territori. I dati dell’Istituto nazionale di statistica mostrano infatti un’Italia a macchia di leopardo.
La provincia che ha pagato il debito più alto è stata Bergamo. Centrata in pieno dalla prima ondata ha fatto registrare un incremento di morti dell’86%, con una variazione spaventosa del +574,7% solo a marzo. Numeri importanti però anche in altre zone del Nord come la provincia di Cremona (+76%), Lodi (62%), Brescia (+57%).
Numeri più diffusi invece durante la seconda ondata del virus. Tra le province più colpite Aosta (+138%), Cuneo (+114%), Barletta-Andria-Trani (+112%). Un lungo elenco che indica come il coronavirus lascerà strascichi enormi.
Confronto tra morti Covid e decessi totali
Fubini fa poi un secondo conteggio e cerca di confrontare i decessi per Covid con l’eccesso di mortalità. Il ragionamento è questo: essendo la pandemia una novità rispetto al periodo precedente, l’eccesso di mortalità deve ricondursi proprio ad essa. Questo è vero solo in parte, ci torneremo. Ma provare a fare il confronto ci può aiutare ad avere un quadro delle differenze territoriali nella lotta al Covid-19.
Il confronto può essere fatto a partire dai decessi segnalati dal bollettino della Protezione civile rispetto all’eccesso di mortalità. Già qui c’è un primo problema. Non esistono dati disponibili sulla mortalità a livello provinciale. I bollettini giornalieri arrivano al massimo a indicare i decessi per regione. Questo ci costringe a sommare i dati provinciali raggruppandoli appunto per regione.
In questo modo si nota come in alcuni contesti ci sia una forbice molto ampia tra persone che hanno perso la vita per il coronavirus ed eccesso di morti nel periodo di tempo considerato. Ma cosa vuol dire praticamente? Facciamo l’esempio di una delle regioni più colpite, la Lombardia.
La media del periodo 2015-2019 indica 71.346 vittime all’anno, mentre tra marzo e novembre 2020 il numero si attestava a 105.479. In questo caso “l’eccesso” è di 34.133 persone. Ma secondo i dati del bollettino al 30 novembre 2020 le vittime per Covid in Lombardia erano state 21.855. In pratica, è stato anche il ragionamento di Fubini, solo il 64% dell’eccesso di mortalità era spiegabile con il coronavirus.
Questa forbice è ampia soprattutto nelle nelle regioni più colpite dalla pandemia, Lombardia appunto, ma anche Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto. Seguendo questo ragionamento si notano alcune zone in cui la mortalità in eccesso è molto lontana dai numeri legati al Covid. È il caso ad esempio di Sardegna, Puglia e Calabria. In queste regioni, nell’ordine, la quota di persone decedute in più nel periodo considerato era coperta solo per il 34%, 41% e 42%. Al lato opposto ci sono regioni come la Toscana in cui questa copertura arriva al 73% o il Veneto (72%).
Come si possono spiegare queste discrepanze? Qui la certezza dei numeri viene meno e si entra nel campo delle supposizioni. Una delle ipotesi è che ci siano stati molti decessi non registrati come pazienti Covid. È un fenomeno successo soprattutto nella provincia di Bergamo nelle primissime fasi dell’epidemia.
Cosa possono dirci i tamponi
L’ipotesi quindi è quella di un certo numero di pazienti non individuati come pazienti Covid e quindi non curati a sufficienza o comunque non archiviati nei famosi bollettini giornalieri della Protezione civile. Ma è possibile verificare questa ipotesi? L’unico tentativo che si può fare è quello di osservare il numero dei tamponi fatti e questo perché sono i soli che permettono di individuare i contagi.
Al 30 novembre i tamponi eseguiti nel corso dell’anno erano stati quasi 22 milioni. Distribuiti in maniera irregolare in tutto il territorio, ad esempio erano 4 mln in Lombardia, 2,7 in Veneto, 2,2 nel Lazio e 2,1 in Emilia. Al contrario in Sardegna erano solo 372 mila, in Calabria 364 mila e in Puglia 784 mila. Se poi proviamo a fare un conteggio in base alla popolazione, scopriamo che molte regioni del Sud avevano un numero di tamponi processati ogni 100 mila abitanti inferiore a quelle del Centro-Nord Italia.
Meno tamponi potrebbe quindi voler dire meno casi scoperti e più pazienti trascurati. Questa però rimane un’ipotesi. Come ha ricordato Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie Infettive dell’ospedale San Martino di Genova, è un errore pensare che tutto sia riconducibile direttamente al coronavirus.
I rischi di un’eccessiva semplificazione
“Ci si dimentica”, ha scritto Bassetti, “di tutti quelli che sono morti anche per altri problemi a causa del Covid. Quanta gente è morta perché ci si dedicava unicamente al Covid di infarto, ictus, altre infezioni, tumore, leucemia, diabete, malattie respiratorie? Quanti sono morti di infezioni da batteri resistenti perché l’attenzione era unicamente rivolta al Covid?”.
Il nodo infatti è che la pandemia non ha avuto solo un impatto diretto sulla salute delle persone, ma ha causato ricadute a cascata che hanno messo in crisi tutta la filiera sanitaria. Come avevamo provato a spiegare parlando di mortalità e letalità del virus, la misura dell’eccesso di mortalità ci può dare un’idea ma da sola non basta, perché non distingue tra le vittime della malattia e quelle legate a fattori paralleli. Pensiamo solo alle visite rimandate da pazienti oncologici o in generale a tutti quelli che nei momenti acuti delle ondate rimandavano visite e terapie.
A maggio la stessa Istat metteva in guardia sulla necessità di maggiori dati per fare valutazioni più precise: “L’ammontare totale dei decessi nel 2020”, si legge in una nota, “è il risultato dell’interazione di diverse componenti: la mortalità direttamente imputabile a Covid-19 e la mortalità per altre cause non direttamente ad esso correlata. Quest’ultima componente, a sua volta, è stata in parte modificata dagli effetti indiretti dell’epidemia. Infatti, mentre ci aspettiamo che la mortalità per alcune cause possa essere in linea con quanto osservato negli anni precedenti, per altre si noteranno delle importanti variazioni”.
“Solo il contributo dell’analisi di tutte le schede con la certificazione delle cause di morte del 2020”, conclude la nota, “consentirà il di individuare le malattie che hanno maggiormente risentito degli effetti indiretti della pandemia”.
Alberto Bellotto
il Giornale
22 Gennaio 2021