“Nel contagio” è il libro che meglio ha fotografato la prima fase della pandemia. L’autore ci racconta l’angoscia dell’isolamento.
Il lockdown ha fatto impazzire le persone normali e in compenso ha calmato i folli”, hanno detto i medici francesi a Emmanuel Carrère, che ha scritto per l’Obs un reportage da un reparto di psichiatria infantile. Lo ha riportato Stefano Montefiori sul Corriere e noi abbiamo letto annuendo, più rassegnati che allarmati. Due giorni fa, il Guardian ha descritto in che modo un anno senza abbracci stia condizionando la nostra salute mentale, riportando studi che dimostrano come il contatto stimoli neuroni, rilasci dopamina, migliori il nostro umore, ci aiuti a superare lo stress, ci faccia sentire integrati, lenisca l’esclusione sociale.
Studi che ci guardavamo bene dal prendere in considerazione quando il contatto fisico era sotto accusa, non molti mesi prima del Covid, e più che di dopamina ci dicevamo desiderosi di rispetto dello spazio personale. Nelle conversazioni private continuiamo a dircelo: questo Covid ci toglie dai piedi seccatori e mondanità, che sollievo.
Dall’altra parte, nella narrazione delle conseguenze della reclusione, dell’impatto psicologico nelle nostre vite e in quelle dei più deboli (bambini, adolescenti, persone sole), usiamo toni definitivi, descriviamo la situazione come fosse una condizione e siamo pressoché certi del segno indelebile, naturalmente negativo, che quest’anno lascerà nelle nostre vite. Esageriamo? Siamo pur sempre l’umanità infragilita che abbiamo spesso ammesso d’essere, l’umanità facile all’offesa e al trauma che adesso scandaglia i dati, osserva, stila bollettini impazienti, pronuncia sentenze. E allora viene da domandarsi se ci vede giusto, cosa sopravvaluta e cosa sottovaluta. Paolo Giordano, scrittore, è stato tra i più lucidi narratori di questi mesi, il suo “Nel Contagio” (Einaudi) è il libro che meglio ha fotografato la prima fase della pandemia, quando riflettevamo sulle cause. Ora che riflettiamo sulle conseguenze, i suoi articoli e il suo podcast, “Ossigeno”, hanno le stesse qualità.
Per questo chiediamo a lui se siamo nel bel mezzo di una catastrofe, se la stiamo edulcorando o esasperando. “Catastrofe non è la parola che ho in testa. Al di là dell’etimologia, che potrebbe forse prenderci, rimanda a qualcosa di molto più dinamico della situazione che stiamo vivendo, a un’idea di crollo, collasso, comunque di movimento. Se mettessimo al centro il numero vertiginoso dei morti, potremmo usarla ma dobbiamo essere onesti nell’ammettere che non è ciò a cui pensiamo in prevalenza. Con la sola eccezione di marzo-aprile, siamo stati sempre più concentrati su come tutto questo riguarda noi e adesso attraversiamo una stasi che ha a che fare con l’angoscia e la depressione. Catastrofe mi sembra invece una proiezione in avanti, ciò che immaginiamo arriverà in un ipotetico dopo. Parlerei piuttosto di situazione o, anche se è un termine abusato, di crisi: non smetto di sforzarmi di vedere questi mesi non solo come un’interruzione ma come una condizione esistenziale altra”. Prima della pandemia stavamo ridisegnando questo punto: i contatti devono diminuire, dobbiamo stare a distanza, l’altro non deve invaderci. Dove sta la forzatura? Mentiamo adesso, mentivamo prima, o stiamo incredibilmente sottovalutando la nostra capacità adattiva? “Già prima non mi piaceva quell’idea di esistenza in cui ognuno basta a sé: adesso mi fa persino infuriare. Che la riduzione drastica della socialità non porti a nulla di buono mi pare un fatto incontestabile, soprattutto in età bisognose di confronto assiduo come quella adolescenziale. Nei mesi scorsi abbiamo assistito a una profusione di luoghi comuni sui più giovani, a partire dall’idea che esserlo significhi sempre stare ammucchiati. Invece la sfida, per molte giovinezze, è uscire dal guscio. Ora viviamo una situazione che avalla quell’avviluppamento e non abbiamo idea dei segni che lascerà. Dobbiamo credere nelle risorse adattive semplicemente perché non abbiamo altra scelta”. E se tutto questo fosse un salto evolutivo che però ci ostiniamo a rifiutare di fare? “Ma quale salto evolutivo? No, no, no”.
Simonetta Sciandivasci
Il Foglio
27 Gennaio 2021