L’idea di poter “produrre” – magari in serie – soggetti umani che sono la fotocopia biologica di altri, infatti, rappresenterebbe una gravissima offesa alla dignità di persona che contraddistingue ciascuno di noi, proprio in quanto essere umano. E ciò indipendentemente dalle finalità ultime (che potrebbero essere anche buone in sé) per cui si procederebbe alla clonazione umana.
Dopo quasi 22 anni, ci risiamo! Era il 5 luglio 1996 quando, al Roslin Institute di Edimburgo, in Scozia, nasceva la pecora Dolly, il primo mammifero generato per clonazione – dallo scienziato Ian Wilmut – mediante la tecnica del “trasferimento nucleare da cellula somatica” (“Scnt”, ovvero “Somatic Cell Nuclear Transfer”). L’avvenimento fu salutato con entusiasmo da una parte del mondo scientifico come un importante passo avanti nella ricerca di nuove possibili vie terapeutiche, in prospettiva futura, anche per l’essere umano.
In realtà, passato qualche anno, fu evidente che Dolly non stava poi così bene in salute, anzi soffriva di una forma di invecchiamento precoce, probabilmente dovuta ai ridotti telomeri (regioni terminali dei cromosomi) delle sue cellule. Tant’è che, fra artriti e infezioni varie, la povera pecora clonata fu abbattuta il 14 febbraio 2003, poco prima del suo settimo compleanno, dai suoi stessi creatori.
Dunque, un sostanziale fallimento di quella tecnica, tanto che Wilmut stesso decise di abbandonarla e di dedicarsi ad una nuova metodica (produzione di cellule staminali pluripotenti indotte), messa a punto nel frattempo dallo scienziato giapponese Yamanaka (che per quella scoperta vinse anche un Nobel nel 2012).
Da allora, tuttavia, altre specie animali furono clonate, ma mai dei primati. Pochi giorni fa, la notizia (l’articolo originale è stato pubblicato sulla rivista “Cell”) che alcuni scienziati cinesi dell’Accademia delle Scienze di Shanghai sono riusciti, per la prima volta al mondo, ad ottenere con la stessa tecnica usata per Dolly la nascita di due cuccioli di scimmia (Macaca fascicularis), di sesso femminile, che per ora – a poche settimane di vita – sembrano godere di buona salute. Come descritto dagli stessi studiosi di Shangai, non è stato certo facile ottenere questo risultato: si è partiti dalla formazione in vitro di ben 301 embrioni (con la tecnica Scnt), 260 dei quali sono stati trasferiti in 63 femmine di macaco. Solo 28 le gravidanze sviluppatesi, 4 i macachi nati vivi, solo due di loro sopravvissuti finora. Certo, non si può dire che si tratti di una tecnica molto efficace! Questi numeri, dunque, fanno intravedere con chiarezza come la concreta possibilità di arrivare, per questa via, ad approntare nuovi modelli sperimentali per future terapie richiederebbe necessariamente il sacrificio di un grande numero di animali (per di più primati), con tutte le problematiche etiche e legali connesse. Ne vale davvero la pena? Non sarebbe meglio seguire altre vie di ricerca alternative, peraltro già coronate da risultati positivi e stimolanti?
Ma – diciamolo con chiarezza – è un altro il pesante interrogativo che, di fronte a questa nuovo passo della scienza biologica, rimbomba nella mente e turba gli animi, destando inquietanti preoccupazioni: dopo i primati, al netto delle difficoltà tecniche, sarà l’uomo il prossimo ad essere clonato?
Non c’è che dire, una tale prospettiva, per quanto ipotetica e lontana, mette davvero i brividi. L’idea di poter “produrre” – magari in serie – soggetti umani che sono la fotocopia biologica di altri, infatti, rappresenterebbe una gravissima offesa alla dignità di persona che contraddistingue ciascuno di noi, proprio in quanto essere umano. E ciò indipendentemente dalle finalità ultime (che potrebbero essere anche buone in sé) per cui si procederebbe alla clonazione umana.
Anzitutto, infatti, va ricordato che la clonazione rappresenta una modalità di riproduzione (come del resto tutte le tecniche di riproduzione artificiale) non degna dell’inizio dell’esistenza di una persona umana, poiché la priva in partenza e premeditatamente del diritto ad essere concepita da due genitori, come frutto quindi della relazione d’amore interpersonale tra un uomo e una donna.
Ma la clonazione ha un aspetto di gran lunga peggiorativo sotto il profilo etico. Per logica intrinseca a questa tecnica stessa, il soggetto clonato è generato in base alle sue caratteristiche biologiche, che sono ovviamente predeterminate. Esso è voluto esattamente perché portatore di quelle caratteristiche e non altre, poiché proprio quelle caratteristiche specifiche servono al raggiungimento delle finalità sperimentali che ci si propone. La persona così generata, dunque, non sarebbe voluta per se stessa, ma solo come “mezzo” strumentale per l’ottenimento di altre finalità (ad esempio, lo sviluppo di terapie per altri soggetti). Si tratterebbe quindi di una forma gravissima e inaccettabile di strumentalizzazione della persona umana, che ne segnerebbe l’intera esistenza. In qualche modo, l’essere umano clonato sarebbe inteso più come “oggetto” che come “soggetto”, quasi a rappresentare una categoria inferiore di umanità, utile solo ad essere usata per determinati scopi.
Ciò sarebbe vero per un soggetto clonato adulto, ma ancora di più – e con maggiore plausibilità scientifica – per un soggetto nelle prime fasi del suo sviluppo, ovvero l’embrione. Spesso, infatti, chi propone la clonazione umana la immagina come una modalità di produzione di cellule staminali embrionali (con patrimonio genetico predeterminato). Ma questo, tradotto in parole semplici, significherebbe estrarre queste cellule dall’embrione clonato – allo stadio di blastocisti -, causandone inevitabilmente la morte per distruzione fisica. Dunque, in tale prospettiva, la clonazione significherebbe procedere alla “produzione” di un essere umano, premeditandone la strumentalizzazione e la distruzione. Peggio di così!
Dunque, se – con molte cautele e il rigido adempimento delle esigenze etiche e legali necessarie – in linea di principio, si potrebbe ammettere in qualche caso la clonazione di animali primati, in nessuna eventualità potrebbe essere moralmente accettabile l’applicazione di tale tecnica riproduttiva sull’essere umano, quale che sia la finalità ultima.
Maurizio Calipari
SIR, 29 gennaio 2018