Il presidente della Pontificia Accademia: recuperiamo il senso dei legami tra le generazioni così da abbracciare l’intera umanità.
Tre sì per la vita. Sì a un’attenzione costante per collegare in ogni situazione il concetto ideale di vita alla realtà vissuta dagli esseri umani, anche nelle situazioni più drammatiche, anche nella malattia terminale. Sì a «ulteriori approfondimenti » sul fronte della responsabilità della generazione. Sì allo sforzo di inquadrare le norme dottrinali nell’«insieme concreto delle circostanze e delle relazioni in cui si trova la persona». Sono i tre sì proposti, nella settimana che porterà alla Giornata per la vita, dall’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita e gran cancelliere dell’Istituto “Giovanni Paolo II”.
«La vita umana, dal concepimento fino alla sua fine naturale, possiede una dignità che la rende intangibile », ha detto ieri il Papa, ribadendo un no fermo a tutte le forme di eutanasia. «Il Vangelo della vita gioia per il mondo», sottolinea il Messaggio per la Giornata 2018 mettendo in luce i tanti collegamenti virtuosi (povertà, immigrazione, fragilità) realizzabili con uno sguardo aperto alla gioia del Vangelo. Giusto affermare che promuovere la vita con prospettive più ampie e comprensive significa anche opporsi alle derive eutanasiche?
Assolutamente sì. La deriva eutanasica è certamente una delle forme più drammatiche per disprezzare la vita. Il Papa afferma questa drammaticità dal concepimento alla fine naturale. Vuol dire che tra questi due estremi si deve comprendere evidentemente l’intero arco dell’esistenza, in tutte le circostanze. La vita è stata troppo frequentemente sottoposta a una lettura riduttiva ad opera dell’imperante paradigma tecnico-scientifico. Già Benedetto XVI insisteva su questo restringimento del modo di comprendere la vita umana, che avviene per una assolutizzazione di quella che egli chiamava la “ragione stru- mentale”: se la vita diviene anzitutto un asettico oggetto di studio per le scienze empiriche o per la teoria sociale, rischiamo di identificarla con un processo biochimico o con un’astrazione concettuale. Il risultato paradossale di questa riduzione sarà di perdere il collegamento tra la vita e il suo significato per gli esseri umani che la vivono. Occorre invece partire dalla vita umana come esperienza d’amore che genera persone. La vita nasce grazie agli altri ed è fin dall’inizio relazione con gli altri. Dobbiamo recuperare il senso dei legami affettivi e spirituali grazie a cui la vita ha origine e si sviluppa, in tutto l’arco del suo svolgersi, nelle relazioni tra le generazioni fino ad abbracciare l’intera famiglia umana.
Come sta cambiando l’impegno per la vita dopo Amoris laetitia?
Dobbiamo stare attenti a non cadere nell’equivoco di ritenere che Amoris laetitia metta da parte la norma morale che scaturisce dall’amore di Dio, o che la contrapponga alla libertà personale che qualifica l’amore umano. Al contrario l’esortazione assegna alle norme un ruolo molto importante all’interno del percorso della ricerca del bene. Sono richiami ai valori e criteri per l’azione, la cui realizzazione è appunto affidata alla responsabilità della coscienza morale. Le norme vanno sempre interpretate alla luce della tradizione che ne illumina l’esperienza, non come formule astratte da applicare astrattamente. In questo senso, le norme richiedono un processo di valutazione che deve prendere in conto l’insieme concreto delle circostanze e delle relazioni in cui si trova la persona. È sempre stato così: perché le norme di cui parliamo sono per far vivere gli esseri umani, non quelle per far funzionare i robot.
Anche sul fronte della vita e della famiglia siamo impegnati a cercare ciò che ci unisce più di quello che ci divide. La Pontificia Accademia sta cercando di farlo anche con chi e- sprime realtà culturali e convinzioni religiose distanti dalla nostra sensibilità. Qual è l’obiettivo?
C’è bisogno di luoghi per un dialogo che vada oltre le passioni che si scatenano su temi molto sensibili e suscitano intense controversie, non solo per il pluralismo che caratterizza il mondo di oggi, ma anche per la risonanza dovuta ai mezzi di comunicazione. Occorre non fermarsi alle prime reazioni e agli aspetti emotivi, ma ricercare le ragioni profonde delle scelte da compiere per il bene universale. È senz’altro uno dei compiti che l’Accademia si prefigge: favorire un ascolto effettivo e un confronto libero, che possa offrire conoscenze aggiornate e sostenere il servizio del magistero. Vogliamo procedere non secondo la logica dell’esclusione che fa prevalere un’opinione sulle altre, ma della ricerca condivisa di un terreno comune.
La ricerca teologica sta esplorando fronti, soprattutto nella sfera complessa e delicata della generazione umana, che soltanto fino a pochi anni fa sembravano impercorribili. Ritiene che si possa arriva a una lettura più inclusiva, capace di mettere al primo posto l’umanità della persona?
Penso che il tema della generazione della vita umana affrontato da Paolo VI nel 1968 conHumanae vitae sia di importanza capitale. Il suo intento di sottolineare la responsabilità che abbiamo nei confronti della generazione chiede di essere ulteriormente approfondito. La dimensione generativa riguarda certamente e in modo del tutto particolare il rapporto tra uomo e donna; ma è anche al cuore di tutte le relazioni interpersonali in quanto fanno veramente crescere l’altro, promuovendone la capacità di vivere in modo più libero e responsabile nel riconoscere e nel compiere il bene, cioè in comportamenti più propriamente umani.
Anche la bioetica sembra avviarsi a una revisione del suo modello tradizionale, sollecitando attenzioni che obbligano a un faticoso esercizio del discernimento. Nuovi percorsi vuol dire nuovi rischi?
La crescita vertiginosa delle possibilità fornite dalle tecnologie richiede un «supplemento di saggezza», come ci ha detto papa Francesco. Dobbiamo imparare non solo a conoscere in modo più avvertito le realtà del nostro mondo complesso, ma anche a prenderci cura della nostra interiorità e capacità di discernimento. Cioè a leggere la realtà, a precisare una scala di valori, a considerare come le scelte e le conseguenze del nostro agire si collegano con l’orientamento complessivo della nostra vita. E questo piano propriamente etico si gioca per il credente nella relazione con il Signore. Vivere in modo maturo la fede significa approfondire sempre di più la conoscenza del Signore Gesù. Cioè familiarizzarsi nell’ascolto della Parola e nella preghiera con i criteri delle sue scelte per assumere la fondamentale intenzionalità di bene e di comunione che ha caratterizzato il suo operare così come i Vangeli ce lo presentano. Sta a noi interpretarli e attuarli nel mondo di oggi, con la luce e la forza della sua grazia.
Luciano Moia
Avvenire.it, sabato 27 gennaio 2018