L’iniziativa si rivolge in particolare alle persone che hanno avuto problemi con la giustizia, uomini che hanno perso il lavoro e la famiglia, storie di sofferenza e di bisogno di casa nostra a cui si aggiungono gli immigrati che dopo aver vissuto per un periodo nei Centri di accoglienza straordinaria, i Cas, restano abbandonati a se stessi.
“Ogni giorno passano in parrocchia sei o sette persone e la maggior parte chiede un lavoro, anche se questo non è un ufficio di collocamento; molti non vogliono nemmeno l’elemosina. Io però non ho gli strumenti per dare lavoro a delle persone”. A parlare è don Carlo Occelli, parroco del Cuore Immacolato di Maria, a Cuneo. Una parrocchia come tante, in una cittadina definibile “benestante”, ma che nel suo tessuto sociale ha sacche di povertà. “In particolare quella degli uomini italiani soli ci sembrava la fascia più indifesa in città, che non ha strutture maschili”: persone che hanno avuto problemi con la giustizia, uomini che hanno perso il lavoro e la famiglia, storie di sofferenza e di bisogno di casa nostra a cui si aggiungono gli immigrati che dopo aver vissuto per un periodo nei Centri di accoglienza straordinaria, i Cas, restano abbandonati a se stessi.
Dalla “sensazione” di non avere gli strumenti per rispondere a queste povertà è nata l’idea di fare un orto: perché “se aspetti che le istituzioni facciano qualcosa, queste persone vanno tutti i giorni a pranzo alla Caritas, ma di fatto entrano in un circolo vizioso, in attesa”, dice ancora don Carlo. Così, a chi bussava in canonica, ha cominciato a dire “Se vuoi qualcosa, fai qualcosa”: potare le rose del giardino intorno alla chiesa, togliere le foglie, pulire l’oratorio. L’esigenza di continuità ha fatto nascere l’orto. Le Suore Giuseppine hanno messo a disposizione 700 metri quadrati di terra, in un angolo della città con vista sulla Bisalta, la montagna simbolo di Cuneo. Una bellissima “location”, sottolinea Chiara, tra i volontari che si sono lasciati coinvolgere in questa avventura. Ora la terra riposa sotto la neve e Chiara anche. Colonnello dei carabinieri in congedo, dopo una vita passata nel Corpo forestale dello Stato, ha trascorso l’estate scorsa nell’orto parrocchiale, da quando si è concimato a marzo, fino a fine stagione, quando sono stati tolti gli ultimi cavoli. Con lei anche Mario, ex-collega in pensione, che si occupa dell’aspetto fitosanitario e dei trattamenti: insieme hanno “coordinato” e collaborato concretamente nei lavori. La terra ha prodotto per tutta l’estate verdura da mangiare e vita da condividere, in abbondanza. “Penso che la cosa più importante” rispetto alle povertà della nostra città “sia dare lavoro e dignità alla gente e mi sembra che con l’orto entrambe le cose si realizzino. Perché coltivare la terra è un lavoro antico e pieno di significati: getti un seme e miracolosamente nascono le piantine, vedi il risultato di quello che fai tu ed è una grande soddisfazione”, spiega Chiara che in tutti gli anni di lavoro non ha mai fatto così poche ferie come l’estate scorsa. Certo sarebbero utili più volontari, ma Chiara non se ne rammarica più di tanto perché da quell’impegno ha ricevuto molto: “Stando con loro capisci quanto poco ci voglia per passare da una condizione all’altra e quanto poco siamo meritevoli di ciò che abbiamo” e che “tutti hanno lo stesso nostro diritto di vivere e lavorare”.
Il raccolto è andato in parte al centro viveri parrocchiale e distribuito al mercoledì insieme al latte, i biscotti, l’olio alle famiglie bisognose del territorio; parte della verdura è finita sulla tavola della canonica, che di fatto è diventata una mensa, dove ogni giorno si siedono 12-14 persone in difficoltà. Un’altra parte è stata messa a disposizione dei parrocchiani che “comprando” la lattuga, i pomodori, i fagiolini, biologici e a chilometro zero, hanno sostenuto il progetto che così si è auto-finanziato, grazie anche al premio ricevuto con il concorso “Tutti per tutti” della Conferenza episcopale italiana. Senza troppo clamore, nei mesi passati, sono nati tre alloggi di accoglienza, nel territorio della parrocchia, per questi uomini in difficoltà. In questo caso c’è stata “ottima collaborazione con le istituzioni che sanno di risparmiare con noi, ma ci danno il loro contributo. Tra l’altro con le case diamo anche lavoro a una persona che segue le persone accolte”, spiega don Carlo. Anche la casa parrocchiale ha aperto le sue porte facendo spazio ad altre sei persone. A sentire don Carlo si ha la percezione che per fare del bene, in fin dei conti, non ci vogliano troppi soldi e riunioni, ma sia sufficiente aprire gli occhi sulla realtà e il cuore ai poveri.
Oltre a chi lavora nell’orto c’è chi fa i biscotti nella cucina dell’oratorio, anche questi offerti ai parrocchiani la domenica dopo messa, o finiti nei cesti natalizi con i manufatti del centro anziani parrocchiale, o marmellate e zuccherini sotto spirito, sempre di produzione propria. Nella mente fervida di don Carlo c’era l’idea di fare anche un “pane della solidarietà”: poco prima di Natale è arrivata in dono anche un’impastatrice. Questo dimostra che “certo la questione delle risorse è da considerare, ma non possiamo fare delle cose quando pensiamo di avere gli strumenti per farle, altrimenti non ci si fida più di Dio e neanche della comunità”.
Ora don Carlo e i ragazzi stanno facendo gli esperimenti per il pane. Sarà un altro modo per ridare dignità alle persone, permettendo loro “di vedere che sono capaci di fare qualcosa, di guadagnarsi da vivere”. Oltre al rapporto stretto con le istituzioni, con gli assistenti sociali, attraverso cui sono state attivate alcune “borse lavoro”, c’è il fatto che “il bene genera del bene”: dei contatti, una rete positiva, che di fatto apre alle persone accolte, che hanno voglia di ricominciare, una strada per ripartire. Com’è successo a Junes, “un marocchino che è stato 8 mesi con noi: adesso ha trovato un lavoro e lo stiamo aiutando a cercare una casa”. Nel futuro c’è “il sogno di creare un punto vendita a tutti gli effetti, che si sostiene, ma non si chiude, accoglie le persone per dare nuove competenze e rilanciarle nella società”. Serviranno risorse, ma in qualche modo anche questa strada si aprirà.
La Comunità sembra rispondere “ma è un processo che deve crescere anche senza troppo rumore. È bello che se ne stiano accorgendo un po’ tutti: i bambini e i giovani che girano in oratorio, gli adulti, gli anziani che comprano i pomodori. Perché si può partecipare a un progetto di solidarietà di comunità anche solo comprando una lattuga. E in questo modo, piano piano si vincono anche le paure della gente rispetto agli immigrati accolti”.
Sarah Numico
SIR, 30 gennaio 2018