Invece di cedere all’allarmismo, concentriamoci su nuovi farmaci e vaccinazioni a un ritmo sostenuto. Il rallentamento della progressione epidemica ha portato molti galli a cantare troppo presto, con alcuni eminenti scienziati, medici, economisti ed esperti vari che si sono distinti nel rassicurare che non vi sarebbe mai stata una seconda ondata; politici e cittadini tutti si sono lasciati andare, e il virus, che non aveva ovviamente mai smesso di circolare, è ritornato ad accumulare cicli replicativi da un paziente a un altro.
Perché solo ora, a circa un anno di distanza dall’inizio della pandemia, sembra che nuove varianti del virus – più contagiose – stiano emergendo? Questa domanda può sembrare fuori luogo – nel senso che si potrebbe pensare che solo adesso stiamo prestando attenzione alle varianti virali, iniziando a sequenziare su scala maggiore il genoma di Sars-CoV-2. In realtà, esistono alcuni fattori concreti da prendere in considerazione. Il primo è il numero di casi occorso nell’ultimo trimestre del 2020 in tutto il mondo, molto maggiore rispetto a quanto fino a quel momento registrato. Il rallentamento della progressione epidemica ha portato molti galli a cantare troppo presto, con alcuni eminenti scienziati, medici, economisti ed esperti vari che si sono distinti nel rassicurare che non vi sarebbe mai stata una seconda ondata; politici e cittadini tutti si sono lasciati andare, e il virus, che non aveva ovviamente mai smesso di circolare, è ritornato ad accumulare cicli replicativi da un paziente a un altro.
Si tratta di un fenomeno perfettamente comprensibile in chiave di psicologia umana, dovuto alla stanchezza per la prima fase dell’epidemia (dove per stanchezza si intende il peso di dover sopportare limitazioni gravi alle proprie libertà, danni economici rilevantissimi, continua preoccupazione per il futuro) e al conseguente innalzamento della soglia critica necessaria a recepire segnali di allarme. Poiché la probabilità di mutazione dipende dal numero di replicazioni, a ogni nuova infezione si sono tirati i dati della variazione casuale del genoma, generando una grande varietà di mutanti di ogni sorta.
Moltissimi di questi sono periti o non hanno avuto nessun vantaggio a causa delle mutazioni occorse, ma moltissimi altri sono sopravvissuti o perché la mutazione è risultata neutrale o perché ha conferito qualche vantaggio al suo portatore. Fin qui, abbiamo parlato di un aumento della varietà della popolazione virale, ma poi, nel più classico dei meccanismi darwiniani, è subentrata la selezione. Il secondo punto importante riguarda infatti la selezione effettuata dal nostro sistema immune sulle varianti in grado di superarlo o di diffondersi più velocemente – magari trasmettendosi prima che la risposta immune possa prendere il sopravvento, in assenza di immunità sterilizzante di lunga durata. Mi spiego meglio: le varianti con mutazioni immunoevasive che conosciamo meglio oggi, quella sudafricana (B.1.351) e quella brasiliana (P.1 e P.2), sono entrambe emerse in luoghi dove si era sviluppata una forte immunità, dovuta a una prima ondata di particolare intensità. La mutazione P.1 è stata identificata come originaria di posti in Brasile dove durante la prima ondata il 70% della popolazione si è infettato; la B.1.351 è diventata dominante nella regione del capo orientale in Sudafrica, dove l’infezione aveva raggiunto livelli simili durante la prima ondata. Queste varianti sono quindi il probabile prodotto del raggiungimento di un’elevata immunità di popolazione alle varianti originali; ma anche le varianti a diffusione rapida, come quella inglese, possono avere avuto origine nel fatto che, considerato che la risposta sterilizzante dura qualche mese, un virus che riesca a infettare un paziente con memoria immune presente, ma senza anticorpi circolanti, ha un vantaggio se riesce rapidamente a infettarne un altro, prima che la memoria immune lo eradichi.
Il terzo punto importante riguarda il modo in cui queste varianti possono essere insorte, che è legato al gran numero di mutazioni che le differenzia dal più vicino ceppo noto precedentemente. B.1.1.7, la variante inglese, e anche la brasiliana P.1 differiscono da ogni virus precedentemente noto per oltre 20 mutazioni; si tratta di un fatto insolito, visto che ogni nuova variante differisce di solito dalle precedenti per poche mutazioni. A quanto pare, almeno la variante inglese potrebbe essersi evoluta in individui immunocompromessi, cioè con un sistema immunitario indebolito, cui è stato a più riprese somministrato plasma iperimmune, in cui l’infezione si è prolungata per svariati mesi. Durante questi mesi, la pressione immune debole dovuta allo stato del paziente è stata evidentemente insufficiente a eradicare il virus, ma è stata sufficiente ad avvantaggiare l’insorgere di numerose mutazioni in punti diversi, in grado di alterare la struttura fisica del virus e presumibilmente di conferire qualche vantaggio al virus almeno nell’ambiente costituito da quel determinato paziente.
Anche senza immaginare che si sia osservato con più attenzione il genoma del virus più recentemente, è certo che l’espansione di fine 2020 dei casi, e la conseguente selezione immune in posti dove la prima ondata aveva colpito più duramente, hanno selezionato mutazioni di ogni sorta; mutazioni che oltretutto, come abbiamo visto ieri, possono poi essere “concentrate” in singoli ceppi virali grazie ad un efficiente meccanismo di ricombinazione, aumentando ancora la fitness complessiva del nemico che stiamo combattendo. Riusciremo a far tesoro di questi semplici (e prevedibili) fatti, per convincerci che dobbiamo non solo vaccinare alla massima velocità possibile, ma anche impedire al massimo la circolazione del virus? Ma soprattutto: riusciremo a evitare di preoccuparci più del dovuto, smettendo di trattare le varianti a maggiore fitness come un fatto nuovo e imprevisto, e a concentrarci invece sulle cose che contano – trovare nuovi farmaci, vaccinare, monitorare e applicare le misure di contenimento in maniera più efficace possibile?
Enrico Bucci
Il Foglio
17 Febbraio 2021