CIVILTA’ CATTOLICA – SEMPLICEMENTE IL GOVERNO DEL PAESE

By 18 Marzo 2021Attualità

Il 17 febbraio 2021 il governo guidato da Mario Draghi ha ottenuto prima la fiducia al Senato – con 262 voti favorevoli, 40 contrari e 2 astenuti – e poi, il giorno successivo, alla Camera dei Deputati con 535 voti favorevoli, 56 contrari e 5 astenuti. È nato così il terzo governo della XVIII legislatura dopo le dimissioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, giunto al suo secondo mandato. L’indicazione di Draghi è giunta dopo una serie di consultazioni condotte prima dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella, e poi dal Presidente della Camera, Roberto Fico, al quale era stato chiesto di sondare la possibilità di un nuovo accordo tra le forze della precedente maggioranza (sostenuta da Movimento 5 Stelle, Partito Democratico, Italia Viva e Leu).

L’indicazione di Draghi

«Avverto, pertanto, il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica. Conto, quindi, di conferire al più presto un incarico per formare un governo che faccia fronte con tempestività alle gravi emergenze non rinviabili che ho ricordato» (Dichiarazioni del Presidente Mattarella al termine dell’incontro con il Presidente della Camera Fico, 2 febbraio 2021, in www.quirinale.it).

Con queste parole, il 2 febbraio 2021, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva concluso il suo discorso diretto ai cittadini e alle forze parlamentari. Per risolvere la crisi di governo aperta dalle dimissioni di Conte il 26 gennaio 2021 non si è passati dunque per la strada di nuove elezioni, come chiedevano le forze di opposizione (Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia). Il Presidente della Repubblica, come nelle sue prerogative, ha indicato una nuova proposta per un governo di alto profilo, chiedendo il sostegno a tutte le forze parlamentari.

La decisione è stata guidata da tre ordini di motivazioni: l’azzardo di lasciare l’Italia nelle mani di un governo limitato alle sue funzioni di ordinaria amministrazione in un momento cruciale a causa delle emergenze sanitaria, economica e sociale; il pericolo di una nuova diffusione del virus e l’urgenza di coordinare la campagna vaccinale; la scadenza del blocco dei licenziamenti e la necessità di presentare alla Commissione europea il piano per l’utilizzo dei fondi – Next Generation EU, detto anche Recovery fund – per il rilancio dell’Italia. Così Mattarella si è rivolto al Parlamento perché si conferisse la fiducia a un governo capace di affrontare i temi in questione nella pienezza delle sue funzioni.

Pochi minuti dopo, il Consigliere per la stampa e la comunicazione della Presidenza della Repubblica, Giovanni Grasso, ha comunicato la convocazione del professor Mario Draghi, per il conferimento dell’incarico di formare un governo. Draghi è una figura autorevole, riconosciuta a livello internazionale. Ricordiamo pure che sei mesi fa papa Francesco lo ha scelto tra i componenti della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Come hanno scritto Eric Albert e Jerome Gautheret, nel momento della crisi, per salvare la Repubblica – come fecero i senatori nell’antica Roma chiamando Lucio Quinzio Cincinnato, ormai ritirato a vita privata – l’Italia si è appellata al suo uomo più rappresentativo, Mario Draghi.

Il nuovo Presidente del Consiglio ha avuto un percorso formativo di eccellenza, che ha continuato a coltivare lungo tutta la sua carriera professionale: dopo aver frequentato l’Istituto Massimo dei gesuiti a Roma, ha seguito le lezioni dell’economista keynesiano Federico Caffè, per poi proseguire gli studi al MIT di Boston (cfr E. Albert – J. Gautheret, «Le triomphe romain de Mario Draghi», in Le Monde, 19 febbraio 2021). Draghi ha ricoperto numerosi incarichi fino a diventare Presidente della Bce, ruolo in cui è stato capace di vincere la crisi dell’euro e di promuovere il cambio di rotta della politica europea di austerity. La sua scelta è stata quella di allentare i vincoli sul debito pubblico degli Stati membri affinché potessero avviare politiche di intervento sulle disuguaglianze sociali (cfr G. Ruta, «Il contributo di Mario Draghi all’Europa. L’Unione economica e monetaria», in Civ. Catt. IV 2019 220-233).

Nei giorni successivi all’incarico è accaduto qualcosa di eccezionale: quasi tutte le forze parlamentari, nonostante alcune prime diverse prese di posizione, hanno virato sul sostegno del Presidente incaricato. Il 12 febbraio Draghi ha presentato la sua lista dei ministri e si è così aperta la possibilità di un governo di coesione nazionale per affrontare sfide uniche.

Il Consiglio dei ministri da lui presieduto si compone di figure tecniche e politiche, un mix che aspira ad assicurare una condivisione delle scelte tra le varie forze rappresentate in Parlamento e un’efficacia degli interventi che saranno proposti. La scelta è andata a favore di figure di tecnici in posizioni molto delicate e di figure di politici abituati a fare un lavoro di mediazione: in questo risiede la saggezza della scelta. Al di là delle etichette, Draghi ha trovato persone che sono in grado di lavorare insieme, facendo in modo che i valori che le singole forze portano avanti possano convergere in funzione di un progetto comune che ha obiettivi chiari e limitati nel tempo. Del voto di fiducia, poi ottenuto, il terzo per ampiezza nella storia repubblicana, si è già detto.

Un governo tecnico diverso

La nascita del governo Draghi è stata accolta come un evento abbastanza eccezionale nella storia della Repubblica italiana. Il confronto più ricorrente – anche se scopriremo non adeguato – è stato quello con i governi Ciampi, Dini e Monti. Tutti governi «tecnici», nati in seguito a momenti di crisi parlamentare e in contesti di profonde difficoltà economiche o politiche del Paese. In tutte e tre quelle occasioni il Presidente della Repubblica in carica ha deciso di indicare un Presidente del Consiglio super partes, capace di raccogliere il consenso al di là degli schieramenti politici, da proporre alla fiducia delle Camere, senza ritornare anticipatamente alle urne.

Il 18 aprile del 1993 l’incarico veniva affidato a Carlo Azeglio Ciampi, già governatore di Bankitalia e futuro Presidente della Repubblica Italiana. Per la prima volta il Presidente del Consiglio dei ministri non era un parlamentare. Il periodo era molto travagliato. Si andava chiudendo il tempo della «Prima Repubblica» con le richieste alle Camere di votare l’autorizzazione a procedere prima per Bettino Craxi, poi per Giulio Andreotti. Si toccava l’apice degli scandali legati a Tangentopoli. L’anno precedente lo Stato era stato colpito dalle stragi di mafia di Capaci e via D’Amelio. In questo contesto il governo Ciampi aveva davanti due urgenze: «preparare una proposta di legge elettorale nel caso che entro luglio il Parlamento non fosse riuscito ad approvare un proprio disegno di legge; trovare 13.000 miliardi per far fronte al disavanzo dello Stato» (G. De Rosa, «Il Governo Ciampi. Inizia un’epoca nuova nella storia italiana?», in Civ. Catt. 1993 II 486-495).

Passano meno di due anni – un segnale della transizione politica in atto – quando a ricevere l’incarico di formare un nuovo governo è Lamberto Dini, anche lui non parlamentare, che succede a Silvio Berlusconi. Sarà un governo a tempo – durerà un anno –, con l’obiettivo di completare il passaggio dalla «prima» alla «seconda» Repubblica e introdurre alcune riforme per riequilibrare la spesa pubblica e sociale. Lo chiarivano i suoi quattro impegni: definire le norme per la par conditio durante le campagne elettorali; completare una nuova legge elettorale regionale che si avvicinasse a quella parlamentare; chiudere un’impegnativa manovra finanziaria; riformare il sistema previdenziale (cfr G. De Rosa, «Il Governo Dini: “tecnico” e “di tregua”», in Civ. Catt. 1995 I 285-293).

Il terzo governo «tecnico» è stato affidato nel 2011 al professor Mario Monti. Esso nasce per rispondere al clima di sfiducia dei mercati che aveva colpito il Paese immerso nella crisi economica globale e immobilizzato dall’incapacità di reagire. Così il governo in carica cede il passo alle «pressioni europee sull’Italia, [che] insieme allo spread (differenza del valore tra i Buoni del Tesoro Poliennali e i Bund tedeschi) in crescita significativa oltre i 500 punti, e al tasso di interesse dei Btp vicino pericolosamente al 7% hanno quasi obbligato il presidente Berlusconi a dimettersi», sintetizzava p. Michele Simone sulle pagine della nostra rivista (M. Simone, «Il Governo di “impegno nazionale”», in Civ. Catt. 2011 IV 496).

Tutti questi governi sono stati chiamati a gestire una transizione e hanno dovuto imboccare alcune strade sofferte e impopolari. Lo scenario del governo Draghi presenta alcune differenze, che vanno considerate per poterlo valutare in futuro. Intanto si colloca nella XVIII legislatura, la prima nella storia della Repubblica a non aver avuto finora un Presidente del Consiglio eletto tra i parlamentari. Anche il professor Giuseppe Conte, che ha presieduto i due governi precedenti, infatti, non è stato eletto, ma proposto e appoggiato da maggioranze costituite da forze politiche. Questo è indicatore dello scenario frammentato emerso dalle elezioni del 2018, nelle quali sono risultati ridimensionati i tradizionali partiti moderati e progressisti, gli schieramenti populisti hanno acquistato forza e si è affermata come formazione di maggioranza relativa una realtà relativamente recente come il Movimento 5 Stelle.

In questi anni nello scenario nazionale e internazionale – inoltre – sono cambiati i termini del dibattito politico, che si sono focalizzati sul polo open against closed, come intuiva l’Economist – con un editoriale titolato significativamente: «The new political divide» – già nel 2016, rispetto alla classica dialettica tra «destra» e «sinistra». Le posizioni open propendono per un dialogo sulle questioni internazionali: euro, flussi migratori e ruolo dell’Unione europea; le formazioni closed propongono, sulle medesime questioni, visioni restrittive, sovraniste, concentrate sui vincoli dei confini nazionali.

Gettare le basi per una «nuova ricostruzione» del Paese

Il nuovo governo ha di fronte due sfide: contrastare la pandemia e avviare – per usare le parole di Draghi al Senato nelle sue dichiarazioni programmatiche del 17 febbraio – la «nuova ricostruzione» del Paese. Fin dalle sue prime parole è emerso un uomo che sente un senso di responsabilità e lo dimostra visibilmente. Con una sobrietà «che ha un’anima» e che capovolge la narrazione costruita sulla presunta freddezza del «tecnocrate».

La prima difficoltà da superare, tuttavia, è l’estrema eterogeneità delle forze parlamentari che lo sostengono. Nel suo discorso Draghi ha voluto ricordare la responsabilità della scelta assunta da partiti che finora si sono presentati all’elettorato come alternativi tra loro: «Nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità ma semmai, in un nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione, ne fa uno avanti nel rispondere alle necessità del Paese, nell’avvicinarsi ai problemi quotidiani delle famiglie e delle imprese che ben sanno quando è il momento di lavorare insieme, senza pregiudizi e rivalità» (M. Draghi, «Le dichiarazioni programmatiche del Presidente Draghi», in governo.it/, 17 febbraio 2021).

Subito dopo il Presidente del Consiglio ha delineato le coordinate «per consegnare un Paese migliore e più giusto ai figli e ai nipoti». Draghi ha avvertito che il suo governo non sarà neutrale, perché la strada su cui incamminarsi non può essere percorsa nella debolezza della solitudine («Non c’è sovranità nella solitudine»), ma con la forza della compagnia nella comune casa europea, a partire dai valori delle democrazie occidentali, consapevoli dell’irreversibilità dell’euro e inseriti nell’Alleanza Atlantica. Dentro questo spazio andranno immaginate le azioni per collocare le risorse, come quelle previste dal Next generation EU, da stanziare per il sostegno e la ripartenza.

Draghi ha l’ambizione di coniugare risposta all’emergenza e disegno del futuro. È da notare l’inusuale ricorrere, nel suo intervento, di due parole che non si sentivano più da tempo nei discorsi di premier, ministri e leader politici: giovani e futuro. Per realizzare una «nuova ricostruzione» non sarà sufficiente dunque affrontare la pandemia e pianificare le vaccinazioni, ma occorrerà avviare una riforma sanitaria che rafforzi la rete territoriale fino all’assistenza medica domiciliare. Gli studenti dovranno recuperare il tempo dello studio perso, però sarà basilare aggiornare i percorsi e le metodologie, oltre che riorganizzare alcuni indirizzi, come quello degli Istituti tecnici, perché le nuove generazioni dovranno avere le competenze per affrontare una società in continuo mutamento. Il sostegno al mondo della produzione e all’economia non potrà esaurirsi in mero assistenzialismo, ma dovrà essere orientato a un nuovo modello di sviluppo, un modello di ecologia integrale, che coniughi in modo indissolubile la custodia dell’ambiente, l’attenzione ai nuovi saperi e l’investimento per il benessere sociale.

Questo significa, ha affermato Draghi con realismo, che vivremo una dolorosa fase di transizione, nella quale non tutte le attività sopravvivranno: «Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare nei prossimi mesi» (ivi). Tutelare i lavoratori significherà, allora, rafforzare l’assegno di ricollocamento e investire in politiche attive, in formazione, nei centri per l’impiego.

Un’occasione per la democrazia: «semplicemente governare»

La crisi che attraversiamo richiede un impegno straordinario. Draghi ha affermato che il suo è «semplicemente il governo del Paese» (ivi). Ci piace pensare che «semplicemente» sia un avverbio capace di richiamare tutte le forze politiche coinvolte all’assunzione della comune responsabilità, per realizzare gli obiettivi senza cadere nella tentazione di una campagna elettorale permanente, a cui l’Italia purtroppo è ormai abituata. Semplicemente governare. Senza lasciarsi distrarre da altro e senza alzare i fumogeni della propaganda per sopperire alle proprie mancanze. In questo senso il governo è «politico», perché la scelta di sospendere il conflitto è, in definitiva, politica.

L’inedita coalizione di governo può diventare una grande occasione di maturazione per i partiti, se essi sapranno evidenziare con i risultati le loro capacità. I partiti sono, dunque, chiamati a riflettere su se stessi. È un momento di laboratorio, e questo spazio consente una decantazione delle tensioni e una riflessione su cosa queste forze vogliono essere e come si definiscono nelle dinamiche del Paese.

Se il governo composto da tecnici e politici saprà impostare le riforme per la «nuova ricostruzione», allora sarà la politica a uscirne più credibile e autorevole agli occhi dei cittadini, perché avrà offerto una nuova occasione per riconoscersi «popolo», comunità legata da relazioni che vanno oltre le differenze. Inoltre, la convergenza di formazioni, finora antagoniste, dentro uno stesso spazio collaborativo potrebbe favorire l’evoluzione del dibattito democratico, fermo all’identificazione dell’avversario come il nemico.

Gettare le basi di un progetto per il futuro dell’Italia contribuirebbe infatti al riconoscimento della dignità dell’altro e degli obiettivi comuni per il Paese, e sposterebbe l’asse del confronto: chiedere il consenso ai cittadini senza la continua delegittimazione dell’altro, non fomentando rabbia, paure, ma con proposte che indichino i mezzi e i percorsi migliori, più idonei ed efficaci per ricostruire. La via che oggi appare l’unica praticabile è quella di sentirci tutti sulla stessa barca: un’arca di Noè, dove salgono insieme lupo e agnello, leone e giraffa. Che non si sbranano, perché il viaggio che si fa è in comune. Anche grazie alla promiscuità forzata – un vero banco di prova – ciascuno potrà riscoprire se stesso e i propri (migliori, si spera) istinti politici naturali.

Fondamentale in questo senso che il presidente Draghi abbia affermato che prima di ogni appartenenza viene il «dovere della cittadinanza», che mostra un interessante punto di incontro con la visione di papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti. Perché è su questa che si fonda il senso dell’«inconsueto perimetro di collaborazione» delle forze politiche per rispondere alle necessità del Paese. Si tratterà di realizzare una forma di «amicizia sociale» che per il Pontefice dà vita alla «migliore politica» (Fratelli tutti, n. 154).

Qui si apre una domanda fondamentale, che è poi una sfida politica: nelle ultime settimane il ceto politico ha mostrato di voler convergere verso il centro, con una svolta generalmente moderata. Sia che si tratti di tattica, sia che si tratti di una maturazione reale, resta però l’incertezza: l’elettorato, abituato alle polarizzazioni e all’esasperazione delle esigenze di parte, farà lo stesso movimento dei partiti che finora ha votato?

In ogni caso, con l’offerta di una prospettiva, la politica ha ora l’occasione di innestare germogli di speranza, perché «una terra sarà feconda, un popolo darà frutti e sarà in grado di generare futuro solo nella misura in cui dà vita a relazioni di appartenenza tra i suoi membri, nella misura in cui crea legami di integrazione tra le generazioni e le diverse comunità che lo compongono».

La Civiltà Cattolica

Quaderno 4097

pag. 417 – 424

Anno 2021

Volume I

4 Marzo 2021