Come scrive Eric Zemmour commentando il ritiro delle truppe Usa dall’Afghanistan, non sempre il mondo si evolve secondo i piani degli esportatori di democrazia. «Intensificando la competizione per le risorse naturali e accelerando la diffusione delle armi di distruzione di massa, la circolazione della nuova tecnologia per il mondo amplifica alcuni dei più pericolosi conflitti umani. Gli utopisti neoliberisti prevedono che la globalizzazione riempirà il mondo di repubbliche liberali, tenute insieme dalla pace e dal commercio. La storia sta rispondendo con un prosperare di guerra, tirannia e impero. Sebbene le società nel mondo diventino più moderne, esse non diventano per questo più simili».
Da un polemista come Eric Zemmour ci si aspetta sempre che la sua zampata ad artigli estroflessi colpisca là dove fa più male, e il suo commento sull’imminente ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan apparso su Le Figaro il 26 marzo scorso non delude le attese: l’ennesimo “nation building” incompiuto da parte occidentale, il fallito trapianto dello Stato di diritto in Afghanistan nonostante un protettorato durato vent’anni, confermano come già in altri casi (che l’autore non cita, ma vengono subito alla mente l’Iraq e la Libia) che «la nostra concezione dello Stato, della democrazia e dei diritti umani non è esportabile ovunque».
Fin qui, comunque, niente di trascendentale: Zemmour non è il primo e non sarà l’ultimo commentatore che invita gli Stati Uniti e i loro alleati a rinunciare a imporre manu militari il sistema politico e valoriale liberaldemocratico a paesi dove non ci sono le condizioni sociali, economiche, culturali – in una parola: storiche – perché tale sistema attecchisca. Ma nel commento c’è qualcosa di più di questo.
Il paradosso dei talebani
A proposito degli afghani, che probabilmente vedranno il ritorno dei talebani al potere dopo che nel prossimo mese di maggio gli Stati Uniti ritireranno le loro truppe, Zemmour scrive:
«Il concetto di Stato-nazione, inventato secoli fa dai francesi, non corrisponde per nulla alla loro civiltà tribale e islamica, dove la solidarietà è clanica e la legge è religiosa. Paradosso: sono stati i talebani, questi “studenti di religione”, ad avere abbozzato un nocciolo di Stato, rimettendo ordine nel paese e combattendo la coltivazione dell’oppio, che oggi rappresenta il 30 per cento del Pil afghano. Ma l’ordine talebano regnava al prezzo di una rigida applicazione della sharia, perciò al prezzo della reclusione delle donne e, più in generale, di un disprezzo per le libertà individuali che a noi appaiono inseparabili dalla dignità umana».
L’islam politico non è anti-moderno
Zemmour lascia intendere che per la modernizzazione dell’Afghanistan i talebani hanno fatto, con scarsi mezzi, più di quello che con una cascata di miliardi di dollari gli occidentali hanno fatto in un ventennio; e che dunque il loro probabile ritorno al potere comporterà il ritorno al loro progetto, che non va ridotto all’imposizione di una teocrazia, ma va inteso come un cammino di modernizzazione proporzionato alle condizioni socio-culturali vigenti, che sono quelle del tribalismo.
La tesi che il cosiddetto islamismo o islam politico non rappresenti una reazione alla modernità e alla secolarizzazione, ma un modo originale e proporzionato alle condizioni storiche dei popoli islamizzati di realizzarle, non è nemmeno questa del tutto inedita, ma certamente è molto meno popolare di quella che si limita a biasimare i tentativi dell’Occidente di imporre il suo sistema politico e la sua idea dei diritti umani come un’impresa neo-coloniale destinata a fallire. Zemmour sembra sottoscrivere entrambe le tesi, ma certo è più intellettualmente stimolante quando evoca la prima. Che qui possiamo cercare di sviluppare.
Perché i talebani sono “moderni”
Perché i talebani – come anche l’Isis, Al Qaeda, i Fratelli Musulmani, eccetera – sarebbero moderni? Perché vogliono uniformare in una versione centralizzata e unica la sharia, che viene applicata secondo logiche localistiche dalle autorità claniche; perché vogliono creare uno Stato centralizzato con un unico patrimonio giuridico della cui applicazione sono incaricati funzionari la cui legittimità non dipende da logiche feudali o familistiche, ma dal fatto di essere al servizio dell’ideologia dello Stato; perché vogliono di fatto ridurre la religione alla sua funzionalità politica, alla sua organicità al potere e alla potenza, spogliandola di tutto ciò che è folklore, credenza popolare, tradizione estranea al libro sacro, misticismo autonomo (e quindi potenzialmente eversivo ed anarchico) dalle quattro scuole della giurisprudenza islamica; perché – come i principati tedeschi al tempo di Lutero – vogliono trasformare la religione popolare in religione di Stato.
Il mito del mondo nuovo
Infine sono moderni perché, come scriveva John Gray nel 2003 a proposito di Al Qaeda, il progetto di costruire la società perfetta in terra attraverso la violenza, l’intimidazione, il terrore e le stragi è un progetto tipicamente moderno. Leggiamo in Al Qaeda e il significato della modernità:
«Nessun cliché è più stupefacente di quello che descrive Al Qaeda come un regresso al Medioevo. […] La convinzione che si possa accelerare la realizzazione di un mondo nuovo attraverso atti di distruzione spettacolari non si trova da nessuna parte durante il Medioevo. I precursori più prossimi di Al Qaeda sono gli anarchici rivoluzionari dell’Europa del tardo Ottocento. […] Come il comunismo e il nazismo, l’islam radicale è moderno. Sebbene pretenda di essere antioccidentale, è formato tanto dall’ideologia occidentale quanto dalle tradizioni islamiche. Allo stesso modo dei marxisti e dei neoliberisti, anche gli islamici radicali concepiscono la storia come il preludio a un mondo nuovo. Tutti sono convinti di poter riformare la condizione umana. Se esiste un solo mito moderno, è questo» (pp. 5-7).
La tragica modernità dei gruppi armati jihadisti come l’Isis si è mostrata nelle loro campagne di pulizia etnica nei confronti delle minoranze cristiane e di genocidio nei confronti degli yazidi: mentre la tradizione islamica ha istituito per le minoranze religiose la status giuridico di dhimmi, cioè di cittadini di seconda classe ai quali era permesso di vivere nel Dar el Islam sotto la protezione delle autorità musulmane se soddisfacevano alcuni criteri onerosi (pagamento di una tassa speciale, abbigliamento discriminatorio, privazione delle armi, eccetera), i jihadisti odierni le trattano come nemici assoluti da eliminare dalla scena, in sintonia con le ideologie totalitarie del Novecento.
L’equivoco obamiano
Ma c’è anche una modernità dell’islam politico che l’Occidente – o almeno il suo establishment progressista, che è poi quello dominante – ha dato l’impressione di apprezzare. Il discorso di Barack Obama all’università del Cairo e il successivo sostegno occidentale alle cosiddette Primavere arabe hanno rappresentato una palese apertura di credito nei confronti di tale islam: l’amministrazione americana e tutte le cancellerie europee erano ben consapevoli che una democratizzazione dei sistemi politici del mondo arabo avrebbe portato al potere non forze laiche liberali o socialdemocratiche, ma i Fratelli Musulmani, come infatti è avvenuto là dove si è votato (Tunisia, Egitto, Libia).
Hanno accettato l’azzardo perché convinti che l’islam politico avrebbe giocato un ruolo modernizzatore e secolarizzatore nel medio periodo, come era successo in Europa coi partiti di Democrazia Cristiana, che hanno accompagnato la secolarizzazione a dosi omeopatiche delle masse cristiane europee (come Antonio Gramsci aveva previsto). La modernizzazione che i partiti comunisti e nazionalsocialisti come il Baath arabo o il Partito repubblicano turco avevano cercato di imporre nel mondo islamico è fallita perché troppo elitaria, in anticipo sui tempi, lontana dalla società reale.
I Fratelli Musulmani, l’Isis, Erdogan
Non si urbanizzano masse contadine strappando il velo alle donne, umiliando l’autorità patriarcale degli uomini, iniettando dosi di libertinismo nei rapporti fra i sessi. Ci voleva gradualità: il velo in pubblico è la condizione che rende possibile l’integrazione delle donne alla vita sociale, non la loro esclusione; la discriminazione delle donne e degli abitanti delle aree rurali nell’accesso agli studi e alle professioni è inevitabile nella prima fase dello sviluppo economico, quando una parte della popolazione deve restare legata al lavoro manuale e domestico e non deve intasare un mercato del lavoro ancora ristretto, eccetera. Con le loro reti di welfare nei quartieri popolari delle città e con la loro rete organizzativa improntata ai partiti politici europei del Novecento, l’ascesa al potere di Fratelli Musulmani e affini si presentava come uno stadio evolutivo necessario e indispensabile alla trasformazione delle società musulmane in società moderne.
Si sa come sono andate le cose: nei paesi dove avevano vinto le elezioni, gli islamisti sono stati ricacciati all’opposizione dai militari o dalla vecchia classe politica; dove hanno scelto la strada della lotta armata sono stati sconfitti sul campo di battaglia. L’unico esempio di successo di islam politico al potere è quello di Recep Tayyip Erdogan in Turchia, ed è un esempio che non piace all’Occidente, perché non soddisfa i criteri relativi ai diritti umani. Ma dovrebbe essere l’occasione per una presa di coscienza imprescindibile: la modernizzazione può assumere volti diversi da quelli che sono diventati dominanti in Occidente; il primato della scienza e della tecnologia nell’organizzazione sociale e l’aumento del benessere materiale e dei consumi non producono necessariamente un mondo di rapporti pacifici, o dove l’identità religiosa non svolge più ruoli politici. Tutt’altro.
La globalizzazione della tirannia
La parabola di paesi come la Turchia, l’Iran e l’Arabia Saudita mostra quanto fossero profetiche le parole scritte da Gray diciotto anni fa:
«Intensificando la competizione per le risorse naturali e accelerando la diffusione delle armi di distruzione di massa, la circolazione della nuova tecnologia per il mondo amplifica alcuni dei più pericolosi conflitti umani. Gli utopisti neoliberisti prevedono che la globalizzazione riempirà il mondo di repubbliche liberali, tenute insieme dalla pace e dal commercio. La storia sta rispondendo con un prosperare di guerra, tirannia e impero. Sebbene le società nel mondo diventino più moderne, esse non diventano per questo più simili».
Se credono che un islam modernizzato loro malgrado dagli stessi islamisti contribuirà all’utopia liberal di un mondo pacificato e centrato sui diritti dell’individuo, i progressisti sbagliano clamorosamente. Per promuovere una fraternità universale serve una base diversa, quella descritta nella parte finale della Fratelli tutti (nn. 272-276) di papa Francesco.
Rodolfo Casadei
Tempi
30 Marzo 2021