Ci sono titoli irresistibili, letto il titolo non puoi non leggere il testo. L’ultimo ce l’ho qui davanti, e dice così: «Dove sei, magico battito?». «Battito» è per eccellenza quello del cuore, e il titolo dà subito l’idea di una persona che cerca un battito particolare, di un cuore particolare: un battito «magico», di un cuore «magico». C’è un legame tra quel battito, quel cuore che batte, e chi lo cerca perché vuol sentirlo, auscultarlo. Leggi il titolo e ti par di vedere una persona che va in giro ascoltando il battito dei cuori che incontra, sperando di sentire ‘quel’ battito, di ‘quel’ cuore, che ha per lei qualcosa di «magico».
Questo comunica il titolo. E non è molto lontano dalla realtà.
Storia simile quella di una madre, fiorentina, cinquantenne, che fa di tutto per incontrare le persone nelle quali sono stati trapiantati gli organi di suo figlio morto in un incidente stradale, ma specialmente la persona nella quale è stato trapiantato il cuore: vorrebbe ancora, per pochi attimi, sentire quel cuore battere sicuro, sonoro, vitale. La comprendiamo, questa madre. Non si rassegna alla morte del figlio, crede alla sua immortalità, e cerca una prova. Questo vuol dire amare. Amare vuol dire non rassegnarsi a perdere. Amare vuol dire conservare per sempre. Anche se uno ama, in quel momento, solo se stesso, amarsi vuol dire non voler morire, dare alla morte un’importanza abnorme, inaccettabile.
«Viaggiavo in un piccolo aereo, non riusciva ad alzarsi per scavalcare la catena di monti, ho pensato che mi sfracellavo», «E hai avuto paura?», «Per niente, ho pensato che morire è facile e banale», e qui Moravia fece, davanti a me, una ‘indifferente’ risata. Ho pensato: «Non sarò mai come lui, non riuscirò mai a capire uno per il quale la propria morte è un fatto banale, che cosa ci divide?». Questo: Moravia era ateo. Lo è stato a lungo, ma alla fine della vita, dopo la morte di Elsa Morante, sua moglie, che lui aveva sposato in chiesa, passò dal non-fideismo al dubbio. Pensava a Elsa e si domandava: «Dov’è adesso?». Questa madre fiorentina, che cerca il cuore di suo figlio, si pone la stessa domanda: trovare le tracce della sua continuità nella vita. Quando il figlio è morto, lei ha donato tutti i suoi organi che poteva donare: i polmoni, un rene, il cuore, il fegato, e sta ancora aspettando a chi può donare le cornee. Ha incontrato per caso (ma nella sua continua ricerca, nulla avviene per caso), la persona, una donna, a cui aveva donato un rene. L’ha incontrata in un ospedale.
Questa donna sta benissimo, e il loro incontro è stato un’esplosione di reciproca felicità. In un certo senso, di reciproca gratitudine. La trapiantata è grata di aver ricevuto un organo che la fa ancora vivere, la madre del donatore è grata che quella particella di suo figlio continui a vivere, significa che suo figlio continua a vivere. Donare una parte di se stesso è un dono ‘immenso’, e immenso vuol dire che non si può misurare. Perciò (lo apprendo ora) chi dona gli organi non ha il diritto poi di cercare coloro ai quali li ha donati. Il credito-debito è troppo grande. Chi ha ricevuto non saprà mai come sdebitarsi. Sono d’accordo su questa ‘impersonalità’ della donazione, è un atto che segue a una reimpostazione generale della società, un atto che segna una nuova civiltà, a creare quell’atto entrano l’informazione, la scuola, le religione, la filosofia.
Se noi stiamo diventando un discreto popolo di donatori, significa che stiamo passando da una concezione per cui ‘il mio corpo è mio, appartiene a me e basta’, a un’altra concezione, per cui ‘il mio corpo appartiene all’umanità, se a me non serve più ma all’umanità serve ancora, può prenderlo’. La madre fiorentina ha fatto questo passo. È giusto che abbia la riconoscenza di tutti. La riconoscenza del singolo donato è bella, è gratificante, ma è troppo poco. Spero tuttavia che lo incontri. Che chini l’orecchio su un cuore che batte e chieda: «Sei qui, magico battito?».
Ferdinando Camon
Avvenire.it, 1 febbraio 2018