Le immagini indimenticabili di una tragedia collettiva e il valore della nostra sofferenza, che è molto simile all’amore
“Una narrazione può farci capire. Le fotografie fanno qualcos’altro: ci ossessionano” scrive Susan Sontag in un libro del 2003, “Davanti al dolore degli altri”, che era introvabile e ora è stato meritoriamente riproposto dalle edizioni nottetempo. Sì, le fotografie che rappresentano il dolore, e che diventano emblema di una vicenda umana terribile, ci ossessionano, ma anche ci fissano dentro un evento, dentro un’epoca. La foto dei camion militari che nel marzo dell’anno scorso portavano le bare fuori da Bergamo, perché il cimitero cittadino non aveva spazio per ospitarle, ha fatto il giro del mondo dando una forma al dolore che stava per diventare collettivo e rendendo la sofferenza e la morte di alcuni, lo sgomento di tutti. Perché spesso, di fronte al dolore degli altri, restiamo crudelmente ipnotizzati ma interiormente distanti, mentre questa pandemia che tutti minaccia indistintamente sembra aver diffuso un generale comune senso di sconforto e di depressione: ne usciremo presto? Saremo mai più gli stessi? Dovremo continuare a vaccinarci a vita? Difficile oggi imbattersi in qualcuno che alla fatidica domanda “come stai? come ti va?” risponda allegramente: “benissimo, mai stato meglio” o cose del genere. Persino chi non è stato toccato né fisicamente, né economicamente dalle conseguenze del Covid sembra profondamente turbato da questa inaspettata esperienza del dolore. Anche se di fronte a una scala troppo grande della sofferenza altrui (ancora Sontag) “la compassione non può che vacillare e diventare astratta”. O persino sconfinare nel suo contrario con l’egoistica spinta a prevaricare (“ti scavalco e mi vaccino prima di te che ne avresti il diritto”) in nome della vecchia legge mors tua vita mea. Dimenticando la logica di una situazione in cui sarebbe molto più intelligente – e prudente – salvarsi tutti insieme, seguendo le direttive.
Siamo le solite creature egoiste ed emotive che non hanno meditato abbastanza sul fatto che “il dolore è sempre in agguato”, un “pensiero da quattro soldi” lo definisce l’autore, V.S. Naipaul, nel prezioso libretto adelphiano dal titolo appunto “Dolore”: “Fa parte del tessuto stesso della vita. E’ sempre sulla soglia. L’amore impreziosisce i ricordi, e la vita; il dolore che ci aspetta è proporzionato a quell’amore, e inevitabile”. Come dire che più amiamo, più soffriamo? Saranno pensieri da quattro soldi, ma non potrebbero essere più veri. E può sorprendere, ma forse no, che in quello stesso saggetto Naipaul parli di due suoi grandi lutti: la morte del padre e la morte del gatto Augustus non solo mettendole sullo stesso piano, ma anzi esprimendo una assai maggiore disperazione per la seconda, arrivando nel finale a consolarsi così: “Mio padre è morto quasi sessant’anni fa. In quel periodo buio mia sorella minore, Sati, aveva tirato fuori un’idea rasserenante. Per quanto collerico, papà era un umorista, e secondo Sati per tutto quel tempo aveva osservato il dolore della sua famiglia, facendosi una bella risata. Qualcosa del genere l’ho pensato anch’io, dopo la morte di Augustus. Lo vedevamo dappertutto, in casa, in giardino, nella siepe. E secondo me osservava tutto quello che accadeva nella casa in cui non abitava più: pensando, con l’intelligenza di sempre, a come regolarsi”.
Già, chissà come si regolano gli esseri che abbiamo amato e abbiamo perduto: hanno nostalgia di noi? Ci restano ancora attorno per un po’ di tempo? Magari, finalmente liberi dai legami terreni, ridono dei viventi sempre avvolti nelle inautentiche beghe dell’esistenza e nelle loro continue recite vanagloriose, dopo che li hanno spinti, scomparendo, di fronte all’unico episodio veramente serio della vita. Come dice la bellissima poesia di Rilke, Esperienza della morte: “Nulla sappiamo di questo svanire / che non accade a noi […] Ma quando te ne andasti, un raggio di realtà / irruppe in questa scena per quel varco / che tu ti apristi: vero verde il verde, / il sole vero sole, vero il bosco. / Noi recitiamo ancora. Frasi apprese/ con pena e con paura sillabando, / e qualche gesto; ma la tua esistenza, / a noi, al nostro copione sottratta, / ci assale a volte e su di noi scende come / un segno certo di quella realtà; / tanto che trascinati recitiamo / qualche istante la vita non pensando all’applauso”.
Ma forza, facciamoci coraggio. Racconta una leggenda sufi, che piaceva tanto a Karen Blixen, di un antico imperatore che chiuso dentro l’anello conservava un bigliettino da leggere come conforto nei momenti estremi. C’era scritto semplicemente: “Anche questo passerà”. Il punto decisivo, però, è che il motto valeva nei due sensi: nel momento della disperazione più nera, come in quello di una irripetibile felicità. Tutto passa, insomma, per fortuna o purtroppo…
Anche il dolore o passa o ci uccide ed è sciocco temere la morte, secondo l’Epicuro di radicate reminiscenze scolastiche, perché o c’è lei e non ci siamo noi, oppure ci siamo noi e lei non c’è. Ma a un’umanità viziata e poco filosofica come la nostra, tambureggiata quotidianamente, oltretutto, dalle immagini di terapie intensive dove si affonda senza la compagnia di un familiare accanto, quella vecchia saggezza può sembrare il gioco delle tre carte. Meglio allora attaccarsi ai libri come a boe di salvataggio per imparare qualcosa e cercarvi una “cognizione del dolore” da far propria.
Alla moglie che stava morendo C.S. Lewis, che era anche un teologo, chiede se gli promette di tornare almeno una volta a consolarlo (in “Diario di un dolore”, ancora Adelphi): “Se puoi… se è permesso… vieni da me quando sarò anch’io sul letto di morte”. “Se è permesso” rispose (lei). “Il Cielo avrebbe un bel daffare a trattenermi. Quanto all’Inferno, lo ridurrei in briciole”. Non c’è fede che tenga, insomma, di fronte alle cose ultime, perché “il dolore assomiglia tanto alla paura” scrive ancora Lewis. In un caso o nell’alro, che si abbia o no la fede, I morti non risorgono (secondo Jack London, e secondo moltissima altra gente). E però “il fatto che una persona sia morta può voler dire che non è viva, ma non che non esiste”: e questo è Julian Barnes in uno strano libro, Livelli di vita (Einaudi) scritto dopo la scomparsa della moglie, un libro in cui mette insieme il lutto personale e l’aspirazione al volo dei primi viaggiatori in mongolfiera. “Siamo creature destinate al piano orizzontale, a vivere coi piedi per terra, eppure – e perciò, aspiriamo a elevarci […] Alcuni di noi lo fanno attraverso l’arte, altri con la religione; nove su dieci con l’amore. Ma se è vero che possiamo elevarci, allo stesso modo rischiamo di precipitare”. Poi riflette: “Ogni storia d’amore è potenzialmente anche storia di sofferenza. Se non subito, in un secondo tempo. Se non per l’uno, per l’altro. Per tutti e due, qualche volta”. Allora perché abbiamo sempre questo bisogno di trovare l’amore, si domanda. E risponde: “Perché l’amore è il punto d’incontro fra verità e prodigio. Verità, come nella fotografia; prodigio, come nel volo aerostatico”. Barnes non crede nella resurrezione, non pensa neanche per un momento che rivedrà da qualche parte la compagna perduta, però coltiva un pensiero magico profondo e consolatorio: “Perciò io le parlo continuamente. Il che risulta tanto normale quanto indispensabile. Commento quello che sto facendo […] mi rispondo al posto suo”.
E’ un’attitudine per resistere al dolore, quella di tenere in vita chi è morto. Lo racconta con parole simili in “Storia di una vedova” (Bompiani) anche Joyce Carol Oates, cui capitò la stessa esperienza di perdita. Si accorge di parlare da sola, anzi no, si accorge che, parlando, si rivolge ad alta voce al marito scomparso: “Naturalmente so – al di là di ogni ragionevole dubbio – che Ray è morto, che non mi ascolta, e tanto meno mi risponderà”. Ma lo fa ugualmente, perché scopre che è uno dei modi (agli estranei può sembrare follia) di fronteggiare il dolore e di sopravvivere. Il suo memoir si conclude con questo Manuale della vedova: “Tra gli innumerevoli tributi di successione che la vedova deve pagare, ce n’è soltanto uno che conta davvero: quello che le darà la forza per affermare, nel primo anniversario della morte del marito: “Mi mantengo viva””. Perché forse, come ha ricordato recentemente Sergio Mattarella, nell’anniversario della nascita di Alcide De Gasperi, ripetendo le parole del grande statista in un celebre discorso: “Non abbiamo il diritto di disperare”. Come invece fece Roland Barthes dopo la morte della madre amatissima alla fine del 1977, alla quale sopravvisse due anni, durante i quali tenne un malinconico diario, pubblicato postumo, “Dove lei non è” (Einaudi), spietata analisi del proprio inconsolabile dolore in cui, alla data 22 marzo 1978, osserva a proposito dell’evolversi del lutto: “L’emozione (l’emotività) passa, la tristezza resta”. E quattro mesi dopo, citanto Proust: “Se fossi sicuro, io, di ritrovare Mamma, morirei immediatamente”.
Ma eravamo partiti dall’atteggiamento che si assume di fronte al dolore degli altri analizzato dalla Sontag attraverso l’osservazione di materiale fotografico spesso scioccante, testimonianza di tanti misfatti dell’uomo sull’uomo, quando l’autrice ancora non poteva lontanamente immaginare (il suo libro comparve in America nel 2003) lo scompiglio che un invisibile virus avrebbe portato nelle nostre vite, allontanandoci dai nemici come dagli amici e persino dai più stretti congiunti, e togliendoci il piacere degli abbracci più innocenti, pure gli abbracci di un bambino. Come quelli col padre della giovanissima protagonista di un meraviglioso racconto di Thomas Mann, “Disordine e dolore precoce”, che racconta del serissimo e rispettato professor Cornelius, dalla grande famiglia con tanti figli, grandi e piccoli (come ebbe lo stesso Mann). Fra tutti Cornelius preferisce la minore, Nora, Norina. Solo per lei abbandona ogni tanto il lavoro nel suo studio impenetrabile e si mette a fare il papero per farla divertire, oppure finge di scambiarla per un cuscino minacciandola di sedercisi sopra. Insomma è entusiasta del loro amore esclusivo.
Un giorno però, i figli grandi danno una festa e Nora, invitata a partecipare prima di andare a dormire, s’innamora perdutamente di un ragazzo attraente, Max Hergesell, che l’ha fatta ballare per gioco. Appena nel lettino, Nora è disperata. Vuole Max vicino, vuole nella sua ingenuità e per averlo sempre con sé che Max prenda il posto di un “suo fratello”! Cornelius ne ha il cuore spezzato: per una punta di gelosia (era lui l’unico incontrastato eroe della piccola fino a quel momento), ma soprattutto per quel disordinato dolore precoce che non sa come consolare. “Norina non è mai apparsa al professore straziato di compassione tanto piccolina, tanto uccellino come ora che si stringe a lui squassata dai singhiozzi, senza capire quel che accade nella sua povera piccola anima”. Allora Max Hergesell viene convocato in tutta fretta nella stanza della bambina e, usando parole dolci, riesce a calmarla finché Norina si addormenta. Il padre, sollevato, riflette sul dolore dei bambini, tormentosissimo e però di breve durata: domani Nora avrà dimenticato completamente la sofferenza provata per il bel Max. “Quale fortuna, egli pensa, che a ogni respiro del suo sonno Lete si riversi nella piccola anima; quale fortuna che la notte di un bimbo scavi così profondo e largo abisso fra giorno e giorno! Domani, è certo, il giovane Hergesell non sarà più che un’ombra smorta, incapace di turbare il suo cuore”.
Non così capita agli adulti, condannati dalle esperienze vissute o da un presente problematico a temere il futuro. Perché non provare però a vederla in modo un po’ più ottimistico? Con i versi di Wislawa Szymborska, magari, che hanno qualcosa della vecchia leggenda sufi: “Nulla due volte accade / né accadrà. Per tal ragione / nasciamo senza esperienza, / moriamo senza assuefazione. / Perché tu, ora malvagia, / dai paura e incertezza? / Ci sei – perciò devi passare. / Passerai – e in ciò sta la bellezza”.
Sandra Petrignani
Il Foglio
19 Aprile 2021