Se ciò che conta non sono più gli enti reali, nella loro sostanzialità, bensì le parole dell’uomo, quasi “parole in libertà”, è inevitabile che l’attenzione si rivolga in misura pressoché esclusiva ai modi di manifestazione del pensiero, piuttosto che agli oggetti reali del pensare: da ciò nasce l’attenzione quasi maniacale verso i toni e gli strumenti di trasmissione delle idee, prima ancora che verso i contenuti delle idee medesime; e la verità del pensiero non si misura più nella corrispondenza o difformità dello stesso rispetto alla realtà, quanto nel grado di approvazione o disapprovazione sociale di una determinata linea ideologica. Dal prossimo numero di L-Jus anticipiamo questo saggio del prof. Gabriele Civello, docente di diritto penale e avvocato a Padova.
1.Nel saggio Politics and the English Language[1] del 1946, George Orwell (1903-1950) sostiene che il decadimento del linguaggio sia la diretta conseguenza del declino politico, economico e culturale della nostra civiltà; a tale riguardo, il pamphlet riporta alcuni esempi linguistici dell’epoca, dimostrando come la lingua inglese sia andata incontro a gravi fenomeni di usura o di ipertrofia quali l’utilizzo superfluo di parole straniere, la ridondanza di sinonimi e, ancor più, la trasformazione di concetti chiarissimi – ma politicamente “scomodi” – in corrispondenti perifrasi eufemistiche apparentemente più garbate ed eleganti, ma in verità ricche di ipocrisia ed equivocità. In tale breve ma densa analisi è racchiusa, secondo i più, una geniale profezia del politicamente corretto, il quale si sarebbe fatto strada progressivamente all’interno della civiltà cosiddetta “occidentale” sino a divenire oggi, dopo oltre settant’anni dalla morte di Orwell, un fenomeno globale apparentemente inarrestabile.
Il politically correct è, a grandi linee, una prassi sociale – una nuova forma di conformismo, da taluni definito persino come una sorta di religione politica[2] – nata soprattutto negli Stati Uniti d’America e, più in generale, nei paesi anglosassoni oltre che scandinavi, la quale comporta la modificazione o la soppressione di espressioni linguistiche preesistenti con corrispondenti nuove locuzioni o perifrasi; ciò al dichiarato fine di evitare che i preesistenti “modi di dire” possano ferire o persino intimidire determinate classi di soggetti, individuate per il sesso o l’orientamento sessuale, lo status di salute fisica o mentale, l’opinione religiosa o filosofica, la provenienza etnica o geografica, l’appartenenza sociale, economica, sindacale o politica, e così via. Celeberrimi, ad esempio, i casi di sostituzione della parola invalido con disabile e, poi, diversamente abile; cieco con non vedente; nero con persona di colore oppure afroamericano; spazzìno con operatore ecologico; bidello con operatore scolastico, eccetera. Oppure ancora: la rimozione del presepe dalle scuole per non offendere chi non crede in Gesù, l’eliminazione della carne di maiale dalle mense scolastiche o universitarie per non urtare i musulmani, e molti altri casi esemplificativi.
In definitiva, il politicamente corretto sottende il tentativo di edulcorare il linguaggio verbale o non verbale, soprattutto depurandolo da una serie cospicua di curvature assiologiche, nella convinzione che queste ultime potrebbero urtare la sensibilità o l’autostima di taluni; per questa ragione, il citato fenomeno comporta l’adozione eufemistica di espressioni linguistiche o di comportamenti deliberatamente più neutri, anodini, “freddi” e assiologicamente indifferenti (almeno in apparenza), onde scongiurare il predetto effetto potenzialmente offensivo.
- Negli ultimi anni, gli studi filosofici, politologici e sociologici sul “politicamente corretto” hanno proliferato in numerosi paesi anglosassoni ed europei, giungendo a individuare l’origine e le cause di tale fenomeno.
Un possibile fattore genetico del politically correct potrebbe essere una sorta di “mutazione” alla quale è andato incontro il pensiero progressista degli ultimi decenni: se, fino agli anni ‘50/’60, l’attenzione delle sinistre marxiste era pressoché tutta rivolta alle questioni socio-economiche come il superamento dell’eccessiva sperequazione fra le differenti classi sociali, l’accesso di tutti i cittadini, anche i meno abbienti, ai diritti fondamentali quali la salute, il lavoro, la casa, l’istruzione e così via, dagli anni ’60 ad oggi – e ancor più dopo la caduta del “blocco Sovietico” – l’attenzione dei progressisti si è bruscamente traslata dai temi socio-economici a quelli di natura ideologico-intellettuale come, soprattutto, l’iper-ambientalismo, l’iper-animalismo, la battaglie del gender e LGBT, e così via. Questo è il primo humus nel quale sono nate e si sono sviluppate le maggiori forme di politicamente corretto, fondate sulla cura, spesso maniacale e martellante, nei confronti dei modi di espressione del pensiero, soprattutto nelle sedi pubbliche e istituzionali, piuttosto che del merito delle idee espresse.
Ma un’altra importante causa genetica del politically correct sembra essere una inedita sopraffazione dei contenuti da parte della forma, e dei significati da parte dei significanti[3]: se la tradizione classica di matrice platonico-aristotelica insegnava che le parole non sono puri flatus vocis, ma rappresentano una forma di segno ancillare rispetto agli “enti reali”, la modernità e soprattutto la c.d. “postmodernità” sono epoche nelle quali tale equilibrio ultrabimillenario si è sfaldato o si sta sfaldando rapidamente.
A tal proposito, la strenua battaglia dell’uomo di oggi contro il realismo filosofico sta comportando un effetto collaterale davvero dirompente: il verbo, la parola, il logos,non sono più puri strumenti e mezzi per un fine che li trascenda, vale a dire la significazione di una realtà che è sì indicata dalla parola ma non è la parola stessa, non si identifica col segno; al giorno d’oggi, la parola come “segno” tende sempre più ad assumere una sorta di statuto ontologico autonomo, come se il significante stesso potesse fare a meno della realtà oggettiva significata. Si tratta di un fenomeno semiotico che è stato icasticamente denominato “significante alla deriva”[4] e che sottende «l’idea che non esistano proprietà autonome della realtà che non siano riducibili al linguaggio»[5], idea che oggi viene chiamata “svolta linguistica” ma che affonda le proprie radici nel nominalismo medievale e, ancor prima, nella concezione sofistica della parola umana.
- Nel Cratilo, Platone pose già numerose questioni che sarebbero poi state oggetto della scienza semiotica e linguistica contemporanea: a fronte della tesi sofistica espressa da Ermogene, secondo cui i nomi sono frutto del puro accordo e della convenzione sociale, Socrate dimostra anzitutto che i nomi hanno necessariamente un qualche legame naturale – forte o flebile che sia – con le cose da essi significate e rappresentate, e in particolare con il loro eidos, la forma, essenza e idea universale cui i singoli enti individuali partecipano.
Si pone, dunque, già in Platone il problema dei rapporti tra significante e significato, tra segno e cose del mondo, in una prospettiva squisitamente realistica, avente cioè a proprio fulcro la res oggettiva, e non già un “io” puramente soggettivo: “altro è il nome, altro è invece ciò di cui esso è nome”, afferma perentoriamente Socrate (430a), non senza precisare di lì a breve che il modo migliore per conoscere le cose è quello diretto, senza cioè il ricorso a quelle entità linguistiche chiamate “nomi” (“le cose devono essere imparate e ricercate non a partire dai nomi, bensì a partire da se stesse molto più che dai nomi”: 439b).
Posto, tuttavia, che gli enti reali, individuali e concreti, sono soggetti al continuo mutamento e movimento, i nomi rappresentano pur sempre un importante ausilio alla conoscenza, poiché concorrono a rispecchiare la stabilità dell’universale che giace all’interno di ogni ente mondano individuale. Il discorso “che dice gli enti come sono è vero, mentre quello che li dice come non sono è falso” (385b): non esiste, dunque, per Socrate e per Platone espressione linguistica vera in sé e per sé, poiché il criterio di verità o di falsità di ogni discorso consiste nella conformità o difformità del medesimo rispetto agli enti del mondo in esso significati e rappresentati.
- Il De interpretatione di Aristotele è un altro importante snodo nello sviluppo di una teoria linguistica di matrice realistica.
L’incipit dell’opera è particolarmente eloquente e perentorio: “I suoni sono i simboli delle affezioni dell’anima e i segni scritti sono i simboli dei suoni”; a loro volta, le “affezioni dell’anima”, cioè i pensieri o rappresentazioni mentali, si riferiscono alle realtà (pràgmata) di cui sono immagini (16a).
Come hanno meglio chiarito gli esegeti, lo Stagirita individua dunque quattro piani teorici: le cose reali (pràgmata); le immaginiche di esse l’uomo si fa nel pensiero sotto forma di “affezioni” (patémata); i suoni (phonai) che sono lo specchio dei pensieri, cioè le parole dette o parlate; infine le parole scritte (graphòmena), segno grafico delle parole “sonore”.
Per Aristotele, le sostanze prime sono gli enti individuali o cose reali; via via che ci si allontana da esse, giungendo ai pensieri, alle parole fonetiche e alle parole grafiche, ci si allontana progressivamente dalla realtà oggettiva e naturale, per approdare al piano logico-linguistico, decisamente ancillare rispetto alla prima.
Ancora: anche per Aristotele, come per Platone, “il falso e il vero hanno a che fare con la connessione e la divisione” (16a 12-13): se il discorso congiunge cose che nella realtà sono congiunte, o separa cose che nella realtà sono effettivamente separate, allora esso è vero; se, invece, esso congiunge ciò che è realmente disgiunto, o disgiunge ciò che è realmente congiunto, allora esso diviene falso.
- Un altro capolavoro del pensiero semiotico di matrice classica è il dialogo De magistro di Sant’Agostino, opuscolo che secondo i più sarebbe, dopo gli scritti platonico-aristotelici e la parentesi stoica, la più importante fucina nella quale è sorta la moderna filosofia del linguaggio.
Colpisce davvero che il santo Autore abbia deciso di trattare il tema del segno linguistico all’interno di un’opera apparentemente focalizzata su tutt’altre questioni teoriche, vale a dire l’educazione e la didattica; ma la perplessità è presto fugata dallo stesso Agostino: ogniqualvolta noi facciamo ricorso alla parola orale e scritta, in certo modo, anche se in misura variabile, noi stiamo insegnando al nostro interlocutore un determinato concetto o anche solo le nostre idee o volontà (“Noi parliamo al fine di insegnare o rammentare”: § 19). Anche quando noi semplicemente entriamo in un negozio e diciamo che oggi “è una bella giornata di sole”, facciamo ciò per “insegnare”, cioè per rendere edotto il nostro interlocutore che potrà uscire senza ombrello, oppure che noi stessi siamo di buon umore, e così via: ogni parola è, dunque, una forma di “insegnamento”, cioè di trasmissione di pensieri, concetti o realtà a taluno che ancora non li conosca o, quantomeno, non li abbia chiari e presenti.
Alla domanda “il segno può essere segno, se non significhi qualcosa?”, il dialogo dà risposta fermamente negativa (“non potest”: § 3), ribadendo di lì a breve la catena semiotica già scoperta ed esaminata da Platone e Aristotele: “La parola è segno del nome, e il nome è segno del fiume, e il fiume è segno di una cosa che può vedersi” (§ 9).
Le conclusioni di Sant’Agostino sono, come sempre, stringenti: da un lato, “noi non possiamo affatto dialogare, se l’intelletto, udite le parole, non si conduca alle cose di cui le parole sono segni” (§ 22); dall’altro, “le cose che vengono significate sono da tenere in considerazione più dei segni. […] La conoscenza in sé, che ci perviene per mezzo di questo segno, [è] da anteporre al segno stesso” (§ 25).
- Il pensiero moderno e soprattutto quello contemporaneo, a ben vedere, disarticolano progressivamente il nesso ontologico tra segno linguistico e realtà oggettiva, tra significante e significato, portando a estremo compimento i pregiudizi ideologici dell’antica sofistica greca e del nominalismo medievale.
In particolare, la filosofia novecentesca è caratterizzata da quella che è stata definita la “svolta linguistica”: per Martin Heidegger (1889-1976), il linguaggio è la casa dell’essere (come recita l’incipit della Lettera sull’«umanismo»), quando invece per oltre duemila anni si era pensato l’esatto contrario, vale a dire che l’essere è la casa del linguaggio, nel senso che ogni segno non è mai, assurdamente, “segno a se stesso”, ma è sempre segno di un previo ente, pieno di “essere”.
Ciò, a ben vedere, rappresenta l’inevitabile corollario del “peccato originale” della filosofia moderna, sin da Cartesio (ma le radici di tale prospettiva sono ben più antiche), vale a dire credere nel Cogito ergo sum, cioè nella priorità del pensiero rispetto all’essere, quando invece è vera e auto-evidente la proposizione esattamente speculare, cioè: Sum ergo cogito, sono ed esisto, e quindi (solo in quanto io sono)posso anche pensare.
Per la c.d. “filosofia analitica”, nata nel mondo anglosassone ma oggi costituente il paradigma dominante del pensiero nominalistico contemporaneo, i più scottanti problemi filosofici non sarebbero altro che altrettanti quesiti di natura puramente linguistica; e di converso, tutto ciò che non sia suscettibile di essere espresso attraverso proposizioni linguistiche non avrebbe alcuna dignità ontologica, tanto che la maggior parte dei concetti tradizionali del pensiero occidentale come “Dio”, “vero, “bene”, “bello”, “giusto”, non sarebbero che giochi linguistici privi di contenuto reale, in quanto soggetti a dispute o contraddizioni ritenuti come insanabili (donde la celebre chiusa del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein (1889-1951), che si conclude con la ringhiosa proposizione: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”: § 7).
Per la grammatologia di Jacques Derrida (1930-2004), il percorso del trascendentalismo kantiano e poi husserliano dovrebbe essere portato ad estreme conseguenze: se il kantismo aveva sostituito la cosa in sé (presunta come inconoscibile) con gli schemi concettuali della conoscenza umana, Derrida intende smantellare gli stessi “concetti”, mostrando che la vera “sostanza prima” è la scrittura o, meglio, la traccia, il segno. Con Derrida, si passa così dal trascendentale kantiano al trascendentale linguistico, sostenendo addirittura che la vera realtà originaria non sarebbe nemmeno più la parola scritta (che per il pensatore francese sarebbe espressione di logo-centrismo, ego-centrismo ed etno-centrismo occidentale, cioè di violenza metafisica), bensì il puro gesto, il segno non costituito da lettere, la mera “traccia”, che diviene così il vero nuovo “trascendentale” della grammatologia contemporanea, al posto della tradizionale serie tomista “ens, res, aliquid, unum, verum, bonum”.
Per Derrida, in definitiva, la “catena” aristotelica che dalle cose giungeva ai concetti del pensiero, e da questi alle parole orali sino alla parola scritta, dovrebbe essere essenzialmente decostruita e ribaltata, riconoscendo al segno (gramma o grafema) un’autonoma dignità trascendentale rispetto alle parole e a fortiori rispetto alle cose “significate”.
“Bisogna pensare la traccia prima dell’ente”, afferma l’Autore della Grammatologia (II.2), quasi a dire – parafrasando Heidegger – che Il segno è la casa dell’essere.
- Il fenomeno del “politicamente corretto”, a ben vedere, rappresenta l’estremo esito del menzionato percorso ideologico, nel corso del quale l’uomo occidentale ha via via cercato di autonomizzare il significante dal significato, il segno linguistico dalle cose reali indicate dal segno: una volta affermato che la parola dell’uomo è dotata di vita propria, di una propria autonomia ontologica rispetto alle cose reali del mondo, il politicamente corretto diviene una conseguenza pressoché necessaria e inevitabile.
Se ciò che conta non sono più gli enti reali, nella loro sostanzialità oggettiva e nei loro rispettivi accidenti di pertinenza, bensì le parole dell’uomo, quasi “parole in libertà”, è inevitabile che l’attenzione si rivolga in misura pressoché esclusiva ai modi di manifestazione del pensiero, piuttosto che agli oggetti reali del pensare: da ciò nasce l’attenzione quasi maniacale verso i toni e gli strumenti di trasmissione delle idee, prima ancora che verso i contenuti delle idee medesime; e la verità del pensiero non si misura più nella corrispondenza o difformità dello stesso rispetto alla realtà, quanto nel grado di approvazione o disapprovazione sociale di una determinata linea ideologica.
Il riduzionismo è, così, dietro l’angolo nel mondo del politicamente corretto, con il conseguente pericolo di perdere ogni contatto con la realtà: non si affrontano più i grandi problemi e le grandi questioni della vita e dell’universo con amore per la verità, ma si dà assoluta prevalenza a ciò che gli altri penseranno di noi e del nostro modo di vedere il mondo, secondo la logica del conformismo-narcisismo tipica dell’era contemporanea.
In tal modo, la società del politicamente corretto non è più interessata ai contenuti razionali del nostro pensiero, ma è subito pronta a incasellare – con il tipico argumentum ad hominem – la nostra persona all’interno di categorie stereotipate come il progressista, il razzista, il passatista, il populista, il sessista, il sovranista, il maschilista, il reazionario, senza più alcuna onesta attenzione verso l’intrinseca razionalità o irrazionalità di un determinato contenuto di pensiero.
- Probabilmente, il più efficace rimedio alla deriva del politically correct consiste in un rinnovato rapporto tra parole, pensieri e cose del mondo: se il politicamente corretto appare come l’estremo esito di un percorso ideologico teso a smembrare il nesso ontologico tra la realtà concreta del mondo, i pensieri dell’uomo e le rappresentazioni linguistiche e poi grafiche degli stessi[6], probabilmente il primo farmaco contro tale deriva è costituito dalla riscoperta dell’intimo legame razionale che incardina la parola al pensiero, e il pensiero alla realtà.
Inoltre, se la realtà – come ci insegna l’empeiria prim’ancora della pura razionalità – è variegata, differente, altra, cioè fatta dall’intreccio dialettico tra identità e differenza, unità e molteplicità, ogni opzione ideologica elitaria, la quale pretenda di neutralizzare a tavolino o in laboratorio tale dato naturale è probabilmente destinata a produrre effetti collaterali ben peggiori rispetto ai mali che, in ipotesi, ci si proponeva di curare.
Non è detto, infatti, che l’indifferentismo valoriale generi una vera pace sociale, come intende invece affermare un certo irenismo neutralista; anzi, l’esperienza concreta sembra dimostrare l’esatto contrario, e cioè che il neutralismo può, tutt’al più, creare situazioni di apparente “silenzio sociale”, il quale però è solo una effimera crosta sotto la quale continuano inevitabilmente a ribollire proprio quelle differenze e quelle alterità che il protocollo convenzionale si proponeva, per l’appunto, di occultare, senza evidentemente potervi riuscire.
A ben vedere, il rispetto reciproco fra le persone, le culture, le religioni e le nazioni richiede necessariamente uno studio razionale della realtà e un profondo spirito di carità e di sacrificio, il quale deve essere continuo e ininterrotto, poiché altrettanto continua e ininterrotta è l’evoluzione dei tempi e dei popoli; viceversa, il politicamente corretto rappresenta una forma di riduzionismo paradossale il quale, sorto al fine di aumentare il rispetto e la tolleranza fra le persone, sembra condurre a forme ancora più sottili e spietate di indifferenza, la quale è anticamera dell’incuria e di sempre nuove forme di disprezzo.
Gabriele Civello
Apr 14, 2021
[1] G. Orwell, Politics and the English Language, in Horizon, 1946, vol. 13, pubbl. 76, pp. 252-265.
[2] Così in G. Reguzzoni, Il liberalismo illiberale. Come il politicamente corretto è divenuto la nuova religione civile delle società liberali, XY.it, Arona, 2015, passim, spec. pp. 63 ss., con una serie di riferimenti storici e di letteratura.
[3] J. Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime, Meltemi, Milano, 2018, p. 71: «Il politicamente corretto è una forma di comunicazione in cui il valore di segno, l’attribuzione categoriale degli enuncianti e dei testi, è considerevolmente più significativa del loro contenuto semantico».
[4] R. Huges, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, Adelphi, Milano, 1994, pp. 71-72.
[5] J. Friedman, op. cit., p. 22.
[6] Cfr. J. Friedman, op. cit., p. 22, in cui una radice del politicamente corretto viene individuata nella presunta e asserita «impossibilità di un’argomentazione razionale nella quale delle asserzioni sono comparate alla, o testate con, la “realtà”. Alla fine, la creazione di “regimi di verità” è interamente una questione di potere, il potere dell’imposizione».