Il caso di un aborto sbagliato in un ospedale di Alessandria.
Con un titolo diverso la frase che segue non ci avrebbe provocato nessun moto interiore, se non forse quello di una solidale soddisfazione: “Vanno risarciti i danni a entrambi i coniugi (…)” per l’erronea esecuzione di un intervento. Così ha stabilito la terza sezione civile della Cassazione, annullando con rinvio una sentenza della Corte d’appello di Torino”.
Ma l’errore è consistito nel non porre fine alla vita di un feto che, per questo esecrabile motivo, è andato avanti per la sua strada trovandosi a nascere!
E’ nata una bambina, sì. Ora ha diciassette anni. Al 2012 risale la prima richiesta di risarcimento avanzata dal padre che però il tribunale di Alessandria respinse. La madre era già stata indennizzata dall’assicurazione dell’ospedale in base ad un accordo raggiunto in tempi brevi, si direbbe.
Nel pezzo di Repubblica che parla dei fatti, ma è così anche su Avvenire nella edizione cartacea del 6 febbraio, quando si comincia a parlare delle motivazioni che avrebbero mosso i due prima a desiderare un aborto – che pareva essere avvenuto spontaneamente e al quale era seguito un raschiamento dell’utero, ed è questo l’intervento fatto male – e poi a chiedere un risarcimento dai danni inflitti dalla nascita di loro figlia, è tutto un rincorrersi di espressioni colloquiali, di vezzeggiativi da chiacchiere tra buoni conoscenti: insomma eravamo già vecchiotti; e un figlio ce l’avevamo già. Era già piuttosto grandicello, non ce la sentivano di avere un altro pargolo.
Mentre invece la figlia, che ha avuto l’ardire di nascere nonostante un intervento chirurgico che aveva lo scopo di ripulire l’utero della sua presenza, ha come sinonimo solo quello di “danno”.
Certo poi loro l’hanno cresciuta, questa bambina. Ma, riferiscono i giornali, per poterla mantenere la madre ha dovuto lasciare il lavoro e anche il padre lo ha fatto per poter ottenere il suo TFR e poter cambiare casa, dandosi da fare poi per trovare una nuova occupazione. Tutto per adattarsi alle esigenze di questa figlia ribelle.
Se infatti avesse assecondato le intenzioni e desideri dei soli soggetti protetti dalla legge avrebbe risolto di non nascere e quindi non si sarebbe poi trovata viva in quelle mura forse strette ad aver bisogno di tutto: cibo, pannolini, vestiti, un lettino.
Fino a questo momento nessun giudice aveva voluto riconoscere le ragioni del padre (forse è questo il caso in cui andrebbero affibbiate due belle virgolette) sebbene tra le motivazioni riportate della prima sentenza, confermata anche in appello, siano indicate cose forse altrettanto tristi della richiesta. Ma coerenti con la legge sull’aborto e con la cultura che le è fiorita attorno.
Il Tribunale di Alessandria indica infatti nei motivi della sentenza che respinge l’istanza del padre che “non era stato dimostrato né che egli avesse effettivamente osteggiato la gravidanza, né che anche la madre della bambina avesse espresso alcuna intenzione di abortire”. Idem farà la Corte di Appello di Torino nel 2013 che respinge il reclamo.
Dietro la decisione della Suprema Corte che ha invece accordato il risarcimento richiesto dal padre c’è il principio secondo cui anche il papà, e non solo la mamma, è un soggetto “protetto” e tutelato con diritto ad essere risarcito in caso di “nascita indesiderata”. Ed è in quella sede che il padre riuscirà a dimostrare quanto questa figlia non fosse voluta. Peccato che la voce dei padri non sia così tenuta in considerazione quando si oppongono alla decisione di abortire della madre.
Finalmente la sua voce fino ad allora ignorata al terzo grado di giudizio (che tenacia, signori) ha ottenuto ascolto. Secondo quanto dichiarato dal padre infatti: “la gestazione era andata avanti contrariamente alla palesata volontà sua e della moglie, in considerazione della loro età avanzata e della presenza di un altro figlio; per quell’evento la moglie aveva dovuto lasciare il lavoro e dedicarsi alla neonata; lui stesso aveva dato le dimissioni per ottenere il Tfr maturato e provvedere ai mutati bisogni della famiglia” (Ibidem)
Il medico ha sbagliato la diagnosi “concernente il feto”. Povera logica, povera lingua italiana: la diagnosi concernente il feto non sarebbe altro che la constatazione che il feto c’era ed era vivo. Ovvero la malattia per la quale era necessario un intervento chirurgico a scopo terapeutico era esattamente il feto. La vita del feto.
Considerazione personale che vale quindi come semplice opinione. Non è improbabile che questi due genitori stiano crescendo loro figlia non semplicemente tollerandone la presenza ma nutrendo per lei affetto e una certa dedizione. Che pur avendo tanto desiderato che non ci fosse, una volta nata, se ne siano fatti una ragione. Nella richiesta di risarcimento, ottenuta subito dalla madre e invece richiesta con una notevole ostinazione per anni dal padre sta forse soltanto una trista e furbastra strategia per fare cassa.
Non è inusuale vedere i medici preventivamente allarmati all’idea di denunce, intentate cause, accuse di malasanità. Avranno forse semplicemente fiutato l’affare.
Ma la legge, le sentenze non sono invece delle iniezioni di veleno direttamente nelle vene di questa società?
E prima ancora: questa bambina, ora ragazza, non avrà sentito e respirato per anni, almeno per tutto il tempo delle vicende giudiziarie legate al suo “caso” un’aria grevissima? Altro che bullismo. Sentirsi guardata come un peso, come un incidente che ha causato gravi danni alla vita dei proprio genitori e poi usata, con la sola prova schiacciante di essere tuttora viva; essere studiata e impugnata come motivo per ottenere un indennizzo, non deve essere esattamente l’orizzonte dentro al quale è bello crescere. Non deve essere la colonna sonora ideale per il film della propria adolescenza già di suo drammatica e critica.
Ma laddove un crimine come l’aborto (in quanto omicidio uno dei peccati più gravi insieme ad apostasia e ad adulterio nei primi secoli cristiani, ricordava questa mattina Padre Livio su Radio Maria) diventa un desiderio ratificato e sancito come diritto ne consegue che le autorità, anziché levarsi a difesa del debole e magari sottrarlo a genitori del tutto inadeguati al compito alto cui sono chiamati, si mettano a difendere il forte contro il debole, a soffocare la voce del meno ascoltato e ad amplificare quella del robusto. A tutelare i genitori contro il figlio. A rendere non solo pubblici i loro più meschini pensieri (non ti volevo, accidenti, perché sei nata) ma a brandirli e impugnarli come principi degnissimi.
Paolo Belletti
Aleteia, 8 febbraio 2018