Un giovane ciclista dilettante comincia ad ottenere risultati migliori del solito, poi improvvisamente dopo una gara muore per cause all’apparenza inspiegabili. Il collegamento tra risultati recenti e morte fa partire un’indagine che oggi, a nove mesi di distanza, scoperchia una realtà sconcertante: un’intera squadra di ciclisti dilettanti, la lucchese Altopack, era diventata un laboratorio per trasformare onesti pedalatori in futuri professionisti.
Sei persone agli arresti domiciliari, 17 indagati. Una vera associazione a delinquere, a cominciare dal presidente del team, i suoi genitori (che mettevano a disposizione una casa-ospedale per tutte le operazioni del caso lontani da occhi indiscreti e dai controlli della Federazione), il direttore sportivo; poi ancora il farmacista che forniva le sostanze non lasciando tracce, un avvocato-consigliere. Si rimane già sbalorditi a vedere come un piccolo centro di provincia veda tante figure rilevanti dedite alla frode e, soprattutto, a distruggere vite in modo scientifico.
Ma la cosa che in questo caso lascia più esterrefatti è il coinvolgimento attivo delle famiglie degli atleti (almeno sei da quanto affermano le agenzie), che nascondevano nei frigoriferi di casa le sostanze dopanti. Come è possibile, viene da chiedersi, che tanti genitori cooperino così attivamente al male dei propri figli? Sarebbe già grave se non si accorgessero che un figlio atleta si dopa, ma addirittura volerlo… A cominciare proprio dal caso di Linas Rumsas, il 21enne corridore morto a maggio scorso. Figlio di Raimondas Rumsas, ex ciclista professionista lituano trapiantato in Toscana, che ha già avuto in passato problemi legati al doping. Ebbene, il fratello minore di Linas, Raimundas junior, pochi mesi dopo la morte del fratello è stato beccato positivo a un controllo e quindi squalificato per quattro anni. Questo è ovviamente il caso più eclatante ma la vicenda di Lucca ci mette davanti la realtà di un atteggiamento diffuso.
Ma cosa spinge un padre e una madre a scegliere questa strada? «I soliti motivi: il successo, i soldi», ci dice Ivano Fanini, patron della squadra professionistica Amore e Vita e simbolo della lotta al doping. Fanini, anch’egli lucchese, nel ciclismo da sempre per lunga tradizione familiare, fondò Amore e Vita quasi trent’anni fa per portare nel ciclismo i valori cristiani in cui ha sempre creduto, tanto che Giovanni Paolo II è stato il primo socio onorario del team. Nei primi anni Fanini fu la causa di forti polemiche quando al Giro d’Italia la squadra si presentò con la maglia che sotto ad Amore e Vita portava scritto “No all’aborto”.
Già da allora iniziò a denunciare apertamente l’uso di sostanze dopanti quando ancora sull’argomento l’ambiente erigeva un muro di omertà, al punto da venire isolato. Ma non è mai arretrato di un centimetro e tutt’oggi la sua squadra è garanzia di serietà. Grazie ai controlli di questi ultimi anni, oggi c’è meno doping nel ciclismo, «ma c’è sempre qualcuno che ci prova, anche se prima o poi finisce inevitabilmente male», dice Fanini.
Quanto alle famiglie, «un fattore da non dimenticare è che i ciclisti vengono in gran parte da contesti non certo benestanti, poter entrare nel giro dei professionisti di livello è un successo notevole. E allora tanti genitori fingono di non vedere e non sapere, qualcuno crede veramente che non sia doping». Non sapere, credere che non sia doping, sembra impossibile con tutto il clamore di questi anni intorno a certe pratiche nel ciclismo. «Stiamo attenti però – dice Fanini – perché del ciclismo si è molto parlato, ma il problema del doping riguarda tutti gli sport, calcio incluso: pensiamo davvero che certe prestazioni siano tutto merito degli allenamenti? E le tante morti di giovani ex calciatori non dicono nulla?».
Resta il fatto che sebbene la lotta al doping abbia avuto molti risultati positivi, «la società è molto peggiorata in termini di valori e anche le famiglie ne risentono», ci dice un ex ciclista professionista che preferisce restare anonimo. C’è un clima molto più tollerante verso la droga in generale e questo si riflette anche sulle scelte delle famiglie e dei giovani nello sport. «Anche alcuni ex professionisti importanti – prosegue – recentemente hanno sentito il bisogno di raccontare il loro doping, con dovizia di particolari. Può sembrare onestà, credo invece sia una forma di esibizionismo stimolato dalla maggiore tolleranza che c’è nella società. E il risultato non può che essere l’emulazione».
Riccardo Cascioli
La Nuova Bussola Quotidiana, 10 febbraio 2018