Le ragioni alla base dello zelo con cui Hollywood corteggia Pechino non hanno nulla a che fare con il politicamente corretto, ma sono di natura squisitamente pecuniaria: l’esclusione dal succulento sino-botteghino – una realtà composta da più di un miliardo di potenziali spettatori paganti – comporterebbe delle perdite immani per l’industria cinematografica statunitense. L’anno prossimo, ad esempio, si stima che, pandemia permettendo, il sino-botteghino potrebbe valere 15 miliardi e 500 milioni di dollari.
Hollywood è quel luogo unico al mondo in cui un’idea può valere miliardi, dove il sogno americano ha messo radici e prospera ininterrottamente dagli anni Venti del Novecento e dove l’intrattenimento è vita. Qui, dove il motto disneyano del “se puoi sognarlo, puoi farlo” è realtà trascendente e sempiterna, politica e immaginazione si mescolano in un tutt’uno indistinguibile dai tempi di Joseph McCarthy – come dimenticare i processi ai “comunisti di Hollywood” da parte della Commissione per le attività antiamericane? –, producendo kolossal in grado di instillare il patriottismo negli americani e di convertire all’American way of life gli spettatori di ognidove.
Negli anni recenti, però, qualcosa si è rotto: Hollywood, pur continuando ad essere il primo e principale instrumentum regni dell’America, ha mostrato e dimostrato più volte di essere in balìa di divisioni intestine e di simpatizzare più per l’agenda di un partito (quello Democratico) che per quella della Casa Bianca. Eloquente, a tal proposito, la trasformazione di Hollywood in un fortino liberal durante l’era Trump, emblematizzata dalla produzione di pellicole e documentari scandalistici nel nome ma vuoti nel contenuto – si pensi ad Active Measures, Fahrenheit 11/9, Trumped e Trump: The Kremlin Candidate – e dalla mobilitazione massiva e massiccia a favore di Black Lives Matter.
Ma non è il progressivo assoggettamento di Hollywood all’universo liberal che sta causando apprensione presso il complesso militare-industriale. Perché i liberal, del resto, non sono che una delle due facce della medaglia a stelle e strisce. L’evento che sta causando grande tribolazione al vertice della piramide dell’Annuit cœptis è un altro ed è molto più insidioso: è l’ombra della Repubblica Popolare Cinese su Hollywood.
No China, No Party
Quasi nessuno ne è a conoscenza, ma Hollywood (let. bosco di agrifogli) deve il proprio nome ad un aneddoto storico che coinvolge un ricco imprenditore di origini scozzesi, Hobart Johnstone Whitley, ed un anonimo taglialegna di nazionalità cinese. Il destino fece in modo che i due uomini si incrociassero nel lontano 1886, laddove oggi sorge l’Hollywood Sign, e che la loro conversazione folgorasse il tormentato Whitley, proprietario immobiliare alla ricerca disperata di un nome con cui battezzare quella terra sulla quale stava poco a poco costruendo un impero.
L’imprenditore chiese al lavoratore perché si trovasse da quelle parti, essendo piena notte, e l’ovvia risposta lo avrebbe spiazzato, o meglio illuminato: stava “hollying wood”, una storpiatura di “hauling wood” (let. raccogliere legna). Whitley, completamente stregato da quell’insolitamente eufonica stroppiatura, decise che il proprio regno in divenire si sarebbe chiamato Hollywood.
Oggi, a distanza di oltre un secolo da quell’incontro (storico), le strade di Hollywood e della Cina continuano ad essere più vicine che mai, nonostante la guerra fredda 2.0 sia nel vivo e nonostante la Casa Bianca, con o senza Trump, veda nel Politburo la principale minaccia alla stabilità e alla sopravvivenza dell’impero americano e dell’ordine internazionale liberale. Perché la scomoda verità è che contrariamente all’Unione Sovietica, lontana dagli Stati Uniti sia ideologicamente sia economicamente, la Cina non può essere ignorata in alcun modo, essendo il primo mercato di riferimento per l’import-export a stelle e strisce, perciò i grandi marchi della moda e gli studi cinematografici americani ne assecondano i desideri come, dove e quanto possono.
Hollywood ha paura (e ha ragione)
All’ombra di cineprese e teatri di posa, nonostante l’apparente tranquillità, sembra che il disneyano “se puoi sognarlo, puoi farlo” sia in procinto di essere sostituito da un “si produce se non nuoce”. Perché l’Hollywood del 2021 parla la lingua dei liberal e ha interiorizzato il maccartismo, trasformando la paura rossa in paura russa – da qui la forte predilezione per il russo quale antagonista nei grandi blockbuster; si pensi ai recenti John Wick, Io sono nessuno, Stranger Things 3 e The Equalizer –, ma continua a trattare con timore reverenziale l’argomento Cina, preferendo non dare alla luce dei prodotti stereotipati e impiegando un linguaggio conforme alle volontà del Partito Comunista Cinese.
Le ragioni alla base dello zelo con cui Hollywood corteggia Pechino non hanno nulla a che fare con il politicamente corretto, ma sono di natura squisitamente pecuniaria: l’esclusione dal succulento sino-botteghino – una realtà composta da più di un miliardo di potenziali spettatori paganti – comporterebbe delle perdite immani per l’industria cinematografica statunitense. L’anno prossimo, ad esempio, si stima che, pandemia permettendo, il sino-botteghino potrebbe valere 15 miliardi e 500 milioni di dollari.
Questa forma sui generis di paura gialla al contrario – dove la Cina, più che affrontata, va temuta e riverita attraverso degli eloquenti kowtow – può essere illustrata esemplificativamente, anche perché i casi di produzioni abortite e/o di attori costretti a fare ammenda pubblica non mancano e, anzi, sono in aumento. Tra gli episodi più degni di nota, accaduti di recente, risaltano per sensazionalità il video-messaggio di scuse (in mandarino) dell’attore John Cena, “reo” di aver definito Taiwan uno Stato durante la campagna promozionale di Fast and Furious 9, la rimozione di alcuni riferimenti al Giappone e a Taiwan da Top Gun: Maverick, in uscita a luglio, e la mancata trasposizione cinematografica del successo editoriale fantapolitico 2034: A Novel of the Next World War di Jim Stavridis, dalla quale “uno dei più grandi studi” degli Stati Uniti si è tirato indietro perché, causa il tema sensibile affrontato – un’ipotetica guerra sino-americana –, “non si potrebbe vendere in Cina”.
Un’autocensura datata
L’elenco dei kowtow all’americana è lungo e sfaccettato, perché inclusivo di revisioni di sceneggiatura, riscritture di copioni, tagli in sede di montaggio e molto altro ancora, e le sue origini sono tutt’altro che recenti. Non è dato sapere quando la paura gialla al contrario sia sbarcata a Hollywood, terrificandone i produttori, ma è fatto noto che già ai tempi di Skyfall (2012) e World War Z (2013) gli studi preferirono apportare delle modifiche per non urtare la sensibilità del sino-botteghino – nel primo caso fu eliminata una scena inerente all’uccisione di un personaggio cinese, nel secondo si optò per indicare l’India quale possibile punto di origine della pandemia zombi.
Il longevo produttore Chris Fenton, che sul tema della colonizzazione cinese di Hollywood ha scritto un libro, Feeding the Dragon: Inside the Trillion Dollar Dilemma Facing Hollywood, the NBA, and American Business, non è stato in grado di risalire alla data di nascita dell’autocensura, ma ne ha spiegato con tremenda franchezza le ragioni: una questione di soldi. Nel lungo je m’accuse, che è anche un j’accuse, Fenton esplica ai lettori come lui, “gli ingranaggi e le ruote della macchina del capitalismo” stessero “facendo semplicemente un lavoro”, cioè “cercare di ottenere l’accesso ad un mercato”.
Mai avrebbero pensato, Fenton e gli altri cercatori d’oro che ogni anno riempiono le sale di tutto il pianeta, che una forma di autocensura limitata e circoscritta avrebbe potuto spianare la strada a qualcosa di più grande e grave, come l’assoggettamento informale di Hollywood all’agenda estera del Partito Comunista Cinese. Quella di Fenton è una storia che merita di essere raccontata per un motivo molto semplice: non è la storia di un produttore redento, è la storia dell’America. America, una nazione che in un laboratorio chiamato globalizzazione ha creato un Frankenstein rispondente al nome di Repubblica Popolare Cinese e che, oggi, a cinquant’anni esatti dalla partita a ping pong che avrebbe cambiato il corso della guerra fredda, ha scoperto che il capitalismo è un’arma a doppio taglio: come compri, così puoi essere comprato.
Emanuel Pietrobon
Il Giornale
24 Giugno 2021