Ieri mi sono svegliato più lamentoso del solito. Poi ho aperto il giornale e ho letto di Bea.
Ho letto che aveva una malattia unica al mondo che calcifica le articolazioni, talmente unica che non le hanno ancora trovato un nome. Ho letto che qualsiasi gesto quotidiano, dal vestirsi al soffiarsi il naso, le costava sforzi sovrumani: era un’anima dentro un corpo che non le apparteneva. Ho letto che non voleva mai addormentarsi perché aveva paura di non svegliarsi più; e che da sveglia sognava di diventare un’anestesista o una pattinatrice. Ho letto che aveva male dappertutto, ma non si lamentava; e che, quando incontrava un bambino con problemi infinitamente inferiori ai suoi, gli diceva: “Non preoccuparti, ti aiuto io.” Ho letto che amava ballare, ma per riuscirci dovevano infilarla dentro il marsupio di qualcuno che ballasse con lei; e che scherzava con le sue amichette: “Alziamoci, ho bisogno di sgranchirmi le gambe”. Ho letto che la madre Stefania, che era le sue gambe, è morta di tumore sei mesi fa; e che anche Bea, nel giorno degli innamorati, è finalmente uscita dalla prigione di ossa. Ho letto che stamattina, ai suoi funerali, ci saranno palloncini colorati e bambini mascherati da supereroi come piaceva a lei, che lo era più di tutti, senza neanche saperlo. Appena ho finito di leggere mi sono sentito, nell’ordine: uno scemo, un ingrato, ma soprattutto un privilegiato smanioso di sdebitarsi.
Massimo Gramellini
www.corriere.it, 17 febbraio 2018