Nel nostro Paese la salute non è “uguale” per tutti ma è influenzata da istruzione, condizioni economiche e residenza. Per l’Osservatorio nazionale dell’Università Cattolica, servono finanziamenti coerenti con i bisogni delle regioni, occorre agevolare l’accesso alle cure e rivedere i criteri di esenzione.
Istituito nel 1978 con l’obiettivo di tutelare la salute come diritto fondamentale dell’individuo e della collettività e di superare gli squilibri territoriali nel Paese, il Servizio sanitario nazionale non è tuttavia riuscito ad assicurare una sostanziale equità tra i cittadini. “Troppe e troppo marcate sono le differenze regionali e sociali, sia per quanto riguarda l’aspettativa di vita sia per la presenza di malattie croniche”, afferma Alessandro Solipaca, direttore scientifico dell’Osservatorio nazionale della salute nelle regioni italiane presentando oggi, 19 febbraio, i dati del focus 2017 sulle disuguaglianze sanitarie. Fondato 16 anni fa e diretto da Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto superiore di sanità, l’Osservatorio, con sede a Roma presso l’Università Cattolica, fotografa ogni anno lo stato di salute degli italiani e la qualità dell’assistenza sanitaria a livello regionale.
In Italia si vive più a lungo secondo il luogo di residenza o il livello d’istruzione, rivela lo studio. Hanno una speranza di vita più bassa le persone che nascono al Sud, in particolare in Campania, o che non raggiungono la laurea. In Campania, infatti, nel 2017 gli uomini vivono mediamente 78,9 anni e le donne 83,3; nella Provincia Autonoma di Trento 81,6 anni gli uomini e 86,3 le donne. In generale, la maggiore sopravvivenza si registra nelle regioni del Nord-Est (rispettivamente 81,2 e 85,6 anni); decisamente inferiore nel Mezzogiorno dove si attesta a 79,8 anni per gli uomini e 84,1 per le donne. Calabria, Sicilia, Sardegna, Molise, Basilicata, Lazio, Valle d’Aosta e Piemonte restano costantemente al di sotto della media nazionale, mentre stabilmente al di sopra della media sono quasi tutte le regioni del Nord, insieme ad Abruzzo e Puglia. Valori elevati di mortalità prematura sono presenti in Campania, Sicilia, Sardegna, Lazio, Piemonte e Friuli.
Oltre alle disuguaglianze territoriali, anche il livello di istruzione e di condizioni sociali incide sulla speranza di vita. In Italia, un cittadino può sperare di vivere 77 anni se ha un livello di istruzione basso e 82 anni se possiede almeno una laurea; tra le donne il divario è minore, ma pur sempre significativo: rispettivamente 83 e 86 anni. Ed è l’obesità, uno dei più importanti fattori di rischio, a dimostrare quanto gli aspetti economici e culturali influenzino stili di vita e salute delle future generazioni. L’obesità interessa infatti il 14,5% delle persone con titolo di studio basso e solo il 6% dei più istruiti, e affligge il 12,5% del quinto più povero della popolazione e il 9% di quello più ricco. Alle disuguaglianze di salute si affiancano quelle di accesso all’assistenza sanitaria pubblica: rinunce alle cure e prestazioni sanitarie a causa della distanza delle strutture, delle lunghe file d’attesa e dell’impossibilità di pagare il ticket. Tra i 45-64 anni le rinunce ad almeno una prestazione sanitaria sono pari al 12% tra coloro che hanno completato le scuole dell’obbligo e al 7% tra i laureati. La rinuncia per motivi economici è pari tra i primi al 69%, mentre tra i laureati è del 34%.
Per gli autori dello studio, la sfida del Ssn sarà contrastare queste persistenti disuguaglianze con interventi e politiche urgenti. “I più rilevanti – si legge nel report – dovranno riguardare l’allocazione del finanziamento alle Regioni, attualmente non coerente con i bisogni di salute della popolazione; l’accessibilità alle cure, ancora molto difficile per alcune fasce di popolazione, da risolvere con soluzioni mirate a mettere in rete tutte le strutture, ospedaliere e territoriali, e governare centralmente gli accessi in base all’appropriatezza degli interventi e all’urgenza degli stessi”. Il tema delle disuguaglianze di salute si intreccia con quello della sostenibilità economica e le soluzioni che circolano poggiano sull’ingresso dei fondi sanitari privati in grado di affiancare lo Stato per questa importante funzione. Tuttavia – mette in guardia l’Osservatorio -, l’introduzione di fondi sanitari di natura sostitutiva, sia pure in parte, del sistema pubblico potrebbe acuire le forti disuguaglianze sociali di cui già soffre il settore. “Molte le incognite che stanno dietro questo tipo di strumenti, sia legate ai premi elevati per i cittadini più a rischio, sia a fenomeni di selezione avversa, cioè esclusione dalla copertura assicurativa di alcune tipologie di persone, quali anziani e malati gravi”. Non meno rilevanti “i rischi di un’assistenza sanitaria di qualità differenziata a seconda dei premi assicurativi che le persone sono in grado di pagare”. Per gli autori della ricerca gli attuali divari sociali potrebbero far vacillare il principio di solidarietà che ispira il nostro welfare,
contrapponendo gli interessi di fasce di popolazione insofferenti per la crescente pressione fiscale, a quelli delle fasce sociali più deboli. Per questo, secondo l’Osservatorio, “sarebbe auspicabile rivedere i criteri di esenzione dalla compartecipazione alla spesa sanitaria e di accesso alle cure e intensificare gli sforzi per combattere l’elevata evasione fiscale che attanaglia il nostro Paese e mina la sostenibilità dell’intero sistema di welfare state”. Il nostro Ssn, la conclusione del focus, resta comunque uno dei più efficaci in Europa. Di qui la necessità di “attuare tutti gli sforzi” per preservarlo e renderlo più equo e sostenibile.
Giovanna Pasqualin Traversa
SIR, 19 febbraio 2018