Le incriminazioni a Gates e Manafort, collaboratori di Trump nella sua campagna elettorale, non riguardano una presunta cospirazione con la Russia. Si tratta di accuse di frode fiscale e bancaria, mentre cade l’ipotesi della cospirazione contro gli Usa. Perché allora si continua, in tutti i media, a parlare di “Russiagate”?
Giovedì 22 febbraio, il procuratore speciale dell’FBI, Robert Mueller, ha presentato davanti al tribunale del Distretto orientale della Virginia, sezione di Alexandria, 32 capi di accusa contro Paul Manafort e Richard Gates, rispettivamente il businessman che per un po’ diresse la campagna elettorale di Donald J. Tump per le presidenziali del 2016 e il suo partner in affari. Ma con la campagna elettorale di Trump e con Trump stesso le imputazioni a quei due non c’entrano nulla.
Che le cose stiano così è noto da tempo. Manafort e Gates sono infatti già stati arrestati nell’ottobre 2017 con 12 capi di accusa. Cosa c’è dunque di nuovo nei 32 capi d’imputazione odierni? Di nuovo c’è che le accuse sono cambiate e che sono pure diminuite. Nonostante i capi d’imputazione siano in numero maggiore, i reati contestati al tandem sono minori. Lo osserva su National Review Andrew C. McCarthy, un vero talento di scrupolo legale. Scompaiono l’accusa di riciclaggio di denaro, quella di attività lobbistica svolta in segreto e quella di cospirazione contro gli Stati Uniti. Al loro posto entrano le accuse di frode fiscale e di frode bancaria. Infatti, nonostante quello che abbiamo tutti creduto di sapere, a Manafort e a Gates in ottobre non fu contestata la frode fiscale in quanto tale. Ne parlò la stampa, ne parlò McCarthy, seguendo lui ne parlammo pure noi, ma quell’accusa esisteva più “tra le righe” che nei documenti, come ha poi puntualmente rilevato lo stesso McCarthy.
Delle 32 accuse mosse oggi da Mueller i primi dieci capi riguardano la frode fiscale di cui Manafort si sarebbe macchiato dal 2010 al 2014 con l’assistenza di Gates, il quale viene a propria volta accusato del medesimo reato per il medesimo intervallo di tempo nei capi dal 15 al 20. I capi dall’11 al 14 ripetono le accuse già contestate in ottobre a Manafort relativamente ai suoi conti bancari esteri e i capi dal 21 al 23 accusano Gates del medesimo crimine. Infine i capi dal 24 al 32 accusano sia Manafort sia Gates di avere ottenuto prestiti per un totale di quasi 26 milioni di dollari frodando il circuito bancario. I due avrebbero anche versato più di due milioni di euro a un non meglio identificato gruppo di ex uomini politici dell’Unione Europa, informalmente chiamato “gruppo Asburgo”, per organizzare una rete lobbystica a favore del governo ucraino filorusso.
Perché il riciclaggio di denaro, l’attività lobbistica segreta e il complotto contro gli Stati Uniti sono scomparsi dalle accuse? Perché la prima è difficile da provare e perché, per la seconda, raramente si finisce in galera. Negli Stati Uniti, l’attività lobbistica è perfettamente legale, anche per conto di entità estere, persino governative, solo che occorre iscriversi a un apposito registro. Manafort e Gates non l’hanno fatto, probabilmente perché avevano qualcosa da nascondere, ma insistendo su questo punto Mueller sarebbe andato poco lontano. Se n’è reso conto e cambiato rotta. Quanto al terzo reato, semplicemente non esiste. La legge federale condanna solo la cospirazione per frodare gli Stati Uniti (che è quello che probabilmente Mueller intendeva) e quella tesa alla violazione del codice penale.
Sta tutto nel documento presentato da Mueller in tribunale, che per la Repubblica consta di 42 pagine (ribassate a 41 nel corso dell’articolo) e che, invece, ha ragione il Giornale a dire che sono 37, anche se l’ultima contiene soltanto la firma del procuratore speciale. È però curioso, per non dire altro, che sulla stampa italiana non vi sia traccia né di questo (si continua infatti a parlare ancora di riciclaggio di denaro) né del fatto cha la tanto sbandierata frode fiscale non fosse stata contestata a Manafort e a Gates nemmeno in ottobre.
Certo, le 32 accuse mosse oggi ai due soci in affari sono sufficienti per inguaiarli a lungo – e venerdì Gates si è dichiarato colpevole di frode finanziaria e di avere mentito agl’investigatori patteggiando una collaborazione con l’Fbi – ma il fatto che siano sparite le accuse di attività lobbistica segreta e di complotto contro gli Stati Uniti è importantissimo. Primo perché sono rimaste solo le accuse di frode fiscale e bancaria, e se Manafort e Gates hanno evaso le tasse e truffato le banche giacché a corto di quattrini, dopo il ben servito dell’Ucraina, Trump che c’entra? Secondo perché il caso di Manafort e Gates interessa alla stampa solo perché i due hanno avuto a che fare, per qualche mese, con la campagna elettorale di Trump. Il sogno di molti è che, spremendo i due faccendieri, salti prima o poi fuori il nome del presidente. Cioè che si parli finalmente delle collusioni fra Trump e il Cremlino. L’attività lobbistica svolta in segreto a favore del governo ucraino capeggiato dal filorusso Viktor F. Janukovyč (con tanto di sottolineatura della parola “segreto”) e il complotto contro gli Stati Uniti contestati in ottobre a Manafort e a Gates sono accuse perfette per reggere il teorema della collusione fra Washington e Mosca.
A parte però il fatto che ancora esse non riguarderebbero Trump, né l’una né l’altra accusa reggono. Tanto che proprio il procuratore speciale incaricato d’indagare sul cosiddetto e presunto “Russiagate” le ha buttate nel cestino. Bottom-line, come dicono gli americani: i 32 nuovi capi di accusa contro i due ex dirigenti della campagna elettorale di Trump allontanano, e non avvicinano, il sospetto che Trump sia stato colluso con Mosca. Anzi, di ciò nemmeno si parla. Sono l’accusa a due trafficoni di avere cercato di fregare il Paese. Fine. A metterlo per iscritto in tribunale è proprio il grande accusatore Mueller. Sui giornali continuiamo però a leggere l’esatto contrario.
Marco Respinti
La Nuova Bussola Quotidiana, 25 febbraio 2018