Xi Jinping non verrà sostituito alla fine del suo secondo mandato presidenziale. Diventerà, almeno potenzialmente, un presidente a vita. Come Mao Zedong.
Il testo della proposta del cambiamento della regola dei due mandati proviene dal Partito Comunista Cinese, di cui Xi Jinping è segretario generale. Ed è stato diffuso dall’agenzia stampa ufficiale Xinhua. Non è ancora legge. Dovrà essere discusso in seno all’Assemblea Nazionale del Popolo, l’organo legislativo del regime comunista cinese, il mese prossimo. La proposta verrà, con tutta probabilità, trasformata in legge quanto prima, perché di norma l’Anp trasforma in legge tutto ciò che viene proposto dal Partito (unico) al governo. La riforma è facile, perché non esiste alcuna legge di natura costituzionale che limita il numero dei mandati del presidente, né alcuna legge che impone limiti di età. La norma dei due mandati venne adottata sotto Deng Xiaoping dal 1982, per evitare di ripetere l’esperienza vissuta sotto Mao Zedong. I vertici del Pcc, allora come oggi, non pensano tanto ai crimini di Mao (35 milioni di morti in varie ondate di repressione dal 1949 al 1975) e neppure alla fame che i cinesi patirono a causa delle sue catastrofiche politiche economiche (i 30 milioni di morti, stimati, causati dalla Grande Carestia). Pensano, piuttosto, alla Rivoluzione Culturale. O meglio, a quella violentissima lotta di potere interna al Partito che venne spacciata da Mao come “Rivoluzione Culturale”, per sbarazzarsi dei suoi rivali interni. In particolar modo, l’ultimo periodo divenne particolarmente cruento, quando infine Deng riuscì a liquidare, con la forza, la “banda dei quattro”, i successori designati di Mao. Per evitare di ripetere quell’esperienza, dunque, si è assunta come consuetudine la regola del limite di due mandati consecutivi, dopo i quali il Partito indica il successore. Ovviamente non si tratta di un metodo democratico, perché non esistono libere elezioni in Cina. Si tratta, semplicemente, di un meccanismo che dovrebbe garantire una successione ordinata.
I media cinesi hanno applaudito (e potrebbero fare altrimenti?) alla decisione di Xi. La Televisione di stato ha descritto il presidente come “Il leader del popolo che serve il popolo con tutto il suo cuore”. Il Global Times considera quella di Xi, una “proposta razionale”. Si fa strada un culto della personalità. E i sintomi c’erano tutti fin da subito. Dal 2012, appena iniziata l’ascesa al vertice del Partito e poi dello Stato, Xi Jinping si è liberato dei suoi rivali lanciando una popolare e reclamizzatissima campagna contro la corruzione, con toni populisti contro le élite del Partito. Una piccola Rivoluzione Culturale, fortunatamente con pochi morti. Poi Xi ha iniziato ad accentrare tutte le maggiori cariche politiche: segretario generale del Partito, Presidente e Comandante in Capo dell’Esercito. Dirige e presiede anche una decina di commissioni, finendo per controllare tutti i processi politici e legislativi del paese.
Le intenzioni di diventare “presidente a vita” sono diventate ben visibili sin dall’ottobre scorso, quando, nel corso del Congresso del Partito Comunista, Xi è stato proclamato come “il più grande teorico vivente” e rieletto per altri cinque anni alla carica di segretario generale, senza alcun successore designato. Il Partito Comunista ha anche proposto di inserire il nome di Xi Jinping nella Costituzione, quale guida di un “Socialismo con Caratteristiche Cinesi per la Nuova Era”. Dal Partito allo Stato, in un regime a partito unico, il passo è brevissimo. E puntualmente è stato compiuto.
L’accentramento di potere nelle mani di Xi Jinping e l’inizio del culto della sua personalità, sono brutte notizie per i cinesi. Alcuni politologi, come Willy Lam, dell’Università Cinese di Hong Kong, ritengono che il potere di Pechino verrà indebolito ed esposto maggiormente al rischio di faide interne. Soprattutto, dice Lam, “I dittatori tendono a commettere gravi errori, perché nessuno osa contestarli”.
Sarà un grave problema soprattutto per i cristiani, nonostante la trattativa fra Pechino e Vaticano. Perché Xi Jinping, proprio per promuovere un Socialismo con Caratteristiche Cinesi, intende accettare solo religioni con caratteristiche cinesi. E la Chiesa cattolica non le ha. E’ considerata come una nefasta “influenza occidentale”. Se si dovesse giungere a un accordo per condividere la nomina dei prossimi vescovi, è prevedibile che Pechino imponga esclusivamente i suoi, scegliendoli fra i più fedeli alla dottrina e alla linea politica di Xi Jinping. Man mano che si consolidava il potere del nuovo presidente, la stretta sulla libertà di religione è aumetata: la campagna per l’abbattimento delle croci, la persecuzione delle confessioni protestanti, la persecuzione in aumento contro la Chiesa cattolica sotterranea (fedele al Papa), l’obbligo per i membri del Partito di essere atei militanti. Sono tutti nefasti segnali che fanno temere cosa sarà la Cina sotto il nuovo Mao.
Stefano Magni
La Nuova Bussola Quotidiana, 27 febbraio 2018