La morte nel vissuto personale
La morte richiama la fluidità e la precarietà dei nostri giorni!
Vari autori affermano che l’atteggiamento che si assume d’innanzi alla morte trae origine principalmente dal comportamento perseguito nella vita, infatti ogni considerazione sulla morte richiama una determinata visione della quotidianità vissuta.
In latino i verbi “nascere” e “morire” sono deponenti, cioè assumono una forma passiva e un significato attivo. La forma passiva indica un evento indipendente dalla scelta personale, il significato attivo mostra che il fatto, nel nostro caso la morte, ha l’accezione che noi gli attribuiamo.
Per questo troviamo due atteggiamenti divergenti.
Il primo è adeguatamente riassunto nella leggenda “di Samarcanda”. ”C’era una volta un uomo che non voleva morire. Era un uomo di Isfahan. E una sera quest’uomo vide la Morte che lo aspettava seduta sulla sedia di casa. ‘Cosa vuoi da me?’ gridò I’uomo. E la Morte: ‘Sono venuta a…’. L’uomo non le lasciò completare la frase, saltò su un cavallo veloce e a briglia sciolta fuggì in direzione di Samarcanda. Galoppò tre giorni e tre notti, senza fermarsi mai, e all’alba del terzo giorno giunse a Samarcanda. Qui, sicuro che la Morte avesse perso le sue tracce, scese da cavallo, e si mise in cerca di un alloggio. Ma quando entrò in camera trovò che la Morte lo aspettava seduta sul letto. La Morte si alzò, gli andò incontro e gli disse: ‘Sono felice che tu sia arrivato e in tempo, temevo che ci perdessimo, che tu andassi da un’altra parte o che tu arrivassi in ritardo. A Isfahan non mi lasciasti parlare. Ero venuta a Isfahan per avvisarti che ti davo appuntamento all’alba del terzo giorno nella camera di quest’albergo, qui a Samarcanda’” (O. Fallaci, Un uomo, Rizzoli, pg. 32). Giovanni Ancona, che riporta questa leggenda nell’ introduzione ad un suo libro sulla morte, così commenta: “Suggestione e realismo s’intrecciano nella leggenda di Samarcanda che rappresenta nell’essenza il paradigma di un incontro ineludibile: l’uomo e la morte. Per quanto, infatti, ci sforziamo di non pensarla o fuggirla, la morte è sempre lì ad attenderci…” (La morte. Teologia e catechesi, Paoline, pp. 5-6).
La secolarizzazione e la laicizzazione hanno reso maggiormente ostico l’argomento, poichè la maggioranza dei nostri contemporanei faticano a comprendere un destino di “uomini risorti” a livello spirituale ma anche corporeo, mentre, nel passato, quando la religione cristiana, che ha come fondamento la risurrezione del Signore Gesù, era vissuta e praticata, questo era un indubbio riferimento.
Il secondo atteggiamento è quello di coloro che offrono alla morte un “significato totalmente esistenziale”, preparandosi con serenità e consapevolezza a quel l’evento, amando e valorizzando ogni giornata e ogni attività.
Per comprendere queste categorie un indispensabile supporto è offerto, come affermato, dal cristianesimo poiché la morte è un mistero inesplorabile dalla limitata ragione umana. Di conseguenza, la fede acconsente al credente un approccio peculiare e la certezza che “preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suoi fedeli”(Sal. 115,15). Il Signore Gesù, con la Sua risurrezione, l’avvenimento che celebriamo ogni anno a Pasqua, testimonia che la nostra vita come la Sua, non cesserà con la morte. Il Messia, annuncia che ogni uomo è destinatario della vita eterna; che la morte è unicamente il transito dall’esistenza terrena, breve, per alcuni brevissima, e spesso scalfita dalla sofferenza e dal dolore a quella eterna, contrassegnata dalla gioia e dalla beatitudine, poichè dopo il Venerdì Santo è predisposta per ognuno, come per Cristo, la Pasqua. Perciò, l’uomo trascorre la prima parte dell’esistenza nel mondo e poi la proseguirà partecipe della stessa vita di Dio, a secondo del giudizio particolare che riceverà (Cfr.: Gv. 5,29).
Dunque, il credente, “accogliendo la morte” le offre il significato di una tappa che pone termine all’esistenza terrena segnata dal peccato, dal dolore e dalla precarietà. E’ un preludio alla beatitudine eterna con il Cristo Risorto: Ia pienezza per ogni essere umano. San Paolo, ammalato e anziano, osservando il suo corpo in declino, afferma: “Egli trasformerà i nostri miseri corpi a immagine del suo corpo glorioso” (Col. 1,14). Piene di speranza sono anche queste parole che sant’Agostino pone sulla bocca di un defunto: “Sono ormai assorbito nell’incanto di Dio, nella sua sconfinata bellezza. Le cose di un tempo sono così piccole al confronto. Vivo in una gioia purissima” (Da: De fide rerum quae non videntur).
Siamo perfettamente convinti che tutti dovremo affrontare la morte; non sappiamo quando.
Per questo un mistico, nell’ “Imitazione di Cristo”, affermava: “La mattina fa’ conto di non arrivare alla sera. Scesa la sera non osare di riprometterti la mattina” (Imitazione di Cristo, Libro I°, cap. XXIII). Oppure: “Guardare la vita dal punto d’osservazione della morte, dà un aiuto straordinario a vivere bene. Sei angustiato da problemi e difficoltà? Portati avanti, collocati al punto giusto: guarda queste cose dal letto di morte. Come vorresti allora aver agito? Quale importanza daresti a queste cose? Fa’ così e sarai salvo. Hai un contrasto con qualcuno? Guarda la cosa dal letto di morte. Cosa vorresti avere fatto allora: aver vinto o esserti umiliato? Aver prevalso, o aver perdonato?” (R. Cantalamessa, Sorella morte, Ancora, pg. 45).
A volte, la morte dell’altro, per la sua drammaticità si trasforma anche in “maestra di vita”.
Un esempio eloquente fu quello narrato da Fra Pierluigi Marchesi (Fatebenefratello). Siamo agli inizi degli anni 40’ del ventesimo secolo, è in corso la seconda guerra mondiale, e Fra Pierluigi era novizio presso l’ospedale di Erba (Co). Un giorno, un treno proveniente da Milano, fu mitragliato e contemporaneamente anche la città di Erba subì pesanti attacchi bellici. Nelle sue memorie ricorderà che la piccola cittadina della Brianza, in due giorni, dovette piangere centoundici vittime. E lui e i suoi confratelli, per una settimana, operarono giorno e notte per curare i feriti e per ricomporre e vestire i morti. Quella traumatica esperienza suscitò nel giovane novizio una profonda riflessione che ricorderà nel corso di una conferenza dopo molti decenni: “Per me la vocazione è nata a Erba, perché quando si veste un morto se non hai una vocazione o si scappa o nasce la vocazione” (cfr. G. Cervellera – G.M. Comolli, Ospitare l’uomo l’uomo. La vita di Fra Pierluigi Marchesi, Ancora, pp. 22-23). Una vocazione che sarebbe proseguita per tutta la vita servendo gli ammalati.
La riflessione attinente la propria morte è essenziale anche per l’operatore sanitario. Scriveva E. Kubler-Ross a riguardo del medico, ma la medesima conclusione è valida per tutti coloro che operano nel settore assistenziale. “Per trovare la formula giusta per un incontro è necessaria la capacità di un medico di pensare alla propria morte. Qualora questo fosse per lui un pensiero arduo, qualora la morte fosse per lui un evento terribile da considerare ‘tabù’, egli allora non potrà parlarne serenamente e con spirito caritatevole con i suoi ammalati” (E. Kubler Ross, La morte e il morire, Cittadella, pg. 35).
Don Gian Maria Comolli
(seconda continua)
Prima parte. La morte nella cultura contemporanea