Viviana, dopo un danno neurologico cade in uno stato di veglia non responsiva dal quale non si risveglia più fino alla morte, quattro anni dopo. Ma al suo fianco c’è il marito Luca, che cresce il piccolo Mattia e che nella prova di quel dolore capisce come si diventi padre: «Lasciando a Viviana il suo posto di mamma, anche se non poteva abbracciarlo». Questa storia di amore nella vita ora diventa un libro.
Luca Nisoli ha da poco compiuto quarant’anni. Ne aveva poco più di trenta quando sua moglie Viviana, dopo un danno neurologico, è caduta in quella condizione che volgarmente i “media” chiamano “stato vegetativo”, nonostante la medicina scientifica, oramai da tempo, abbia specificato che il termine sia da considerarsi errato e consigliabile quindi l’uso della ben più consona definizione “veglia non responsiva”. Mattia, il loro bambino, era un neonato, all’epoca dei fatti. Per quattro anni, prima di morire, Viviana è rimasta sospesa in quel limbo che pone ancora tante domande, forse troppe per quanto se ne parli spesso con sfacciata disinvoltura.
Oltre le parole, al di là dei principi sull’autodeterminazione, Luca, nel giro di pochissime ore, ha dovuto riscrivere la sua vita, quella di suo figlio Mattia, i passi del quotidiano, ogni singola azione, pensiero, progetto. Ora quell’avventura umana, drammatica ma al tempo stesso fonte di straordinaria bellezza, è diventata un libro, “Ti dico la verità – Un uomo racconta a suo figlio come è diventato padre” edito da Lindau e scritto da Paola Turroni. Luca, è un operaio ed un batterista, di un piccolo paese della bassa bergamasca, Brignano Gera d’Adda. È un uomo molto concreto, come lo sono tutti gli uomini di quella terra, così alla domanda “perché hai voluto raccontare la tua storia”, risponde con la semplicità sorprendente di coloro che usano le parole solo quando hanno un senso incarnato nel reale.
“Mattia quando tutto è accaduto aveva sei mesi. Ora ha otto anni, è ancora piccolo ma si è trovato ad affrontare situazioni che fortunatamente la maggior parte dei suoi coetanei non vivono. Ho sempre dovuto decidere pensando per due, ma non ho mai sostituito Viviana. Le ho lasciato il suo posto, anche se non poteva abbracciarlo, anche se a differenza dei suoi compagni di classe alla “Festa della Mamma”, ci dovevo andare io. Gli ho raccontato sempre la verità. Ho cercato di fornirgli tutti i tasselli, affinché potesse costruire per intero il percorso della sua vita. Non ho mai edulcorato nulla, neppure la morte. Il vivere è esattamente questo, anche se spesso tendiamo a nascondercelo. Non siamo esenti da nulla. Ho voluto pubblicare questo libro proprio, per lasciare a lui e a me una traccia. Quando sarà più grande ed avrà ancora più voglia di capire, potrà paragonarsi anche con i miei errori, paure, debolezze”.
Un libro però, una volta pubblicato diventa qualcosa che va al di là dell’esperienza personale, diventa in qualche modo universale. Soprattutto un testo come questo…
Ne sono consapevole. Ho conosciuto nelle strutture molte famiglie, in quei quattro anni, che hanno vissuto il mio stesso dramma. Ancora oggi, alcune le incontro. So che la mia storia può fornire loro uno strumento di confronto e ancor più per chi non sa nulla di tutto questo e che parla per sentito dire, che giudica in base ai programmi televisivi. Il dolore invece è una lama tagliente che lascia cicatrici. Solo l’amore è capace di rimarginare. Ecco, quando in Tv si parla di questi argomenti, io cambio canale. Il più delle volte si tratta di un puro esercizio di stile. La realtà è un’altra cosa.”
Ad un certo punto nel libro si legge: “Non sapevo quello che era giusto, quale fosse il bene supremo, i principi etici cui appellarmi. Non sapevo niente di tutto questo, avevo solo l’amore per decidere. Ho solo mantenuto una promessa”. Si riferisce a quella promessa di matrimonio, “nel dolore e nella malattia…”?
Sì. Esattamente. Come si può fare diversamente? Io non potevo cambiare la realtà, mi sarebbe piaciuto, ma non potevo. Con quella dovevo farci i conti. Con quella dovevo lottare. Ho agito sempre così, cercando di fare la cosa migliore, di onorare l’amore, semplicemente. Così sono diventato padre.
Nel libro racconta che Mattia crescendo ha iniziato a fare domande e che spesso lei si è sentito come un pugile steso sul ring che aveva l’obbligo di rialzarti. Rispondergli non era un’opzione ma un dovere…
Proprio così. Quando un bambino ti fa delle domande, non puoi fuggire e non puoi neppure raccontare delle frottole. Spesso sarebbe più comodo, ma la comodità non fa coppia con la realtà. Mattia aveva sentito da alcuni parenti che la mamma era in cielo, e non capiva, giustamente perché allora andavamo a trovarla al cimitero. Ho cercato di spiegargli che il suo corpo era in quel luogo ma che la sua anima continuava a vivere altrove, proprio in cielo. Di primo acchito è bastata quella risposta, ma poi un giorno mentre giocavamo sul divano, si è fatto silenzioso e mi ha chiesto cos’era l’anima. Io sono sbiancato, ho barcollato per qualche secondo e non avendo in dote molti strumenti per rispondergli gli ho chiesto se mi volesse bene. Lui mi ha risposto di sì, e quindi gli ho spiegato che l’anima è proprio quel bene che vogliamo agli altri e che gli altri vogliono a noi. Un sentimento che va oltre la presenza su questa terra, che trascende il presente. So bene che non è una risposta teologica, ma l’immagine di un bene che non si esaurisce, che perdura, che va oltre le cose di tutti i giorni, lo ha rasserenato e dicendolo ha rasserenato anche me.
“Ti dico la verità” è un libro ma è anche lo strumento di promozione del “Progetto Mattia”, ci spiega di cosa si tratta?
Nel dramma io ho avuto la fortuna di avere una famiglia d’origine che mi ha aiutato a sostenere la sfida, a reggere le fatiche e le sofferenze, ma la solitudine è il dramma più grande per tutti coloro che si trovano a vivere l’angoscia della malattia. Ho pensato così che la mia storia poteva servire anche a sensibilizzare su questo fronte e che poteva diventare un viatico per attivare un progetto sociale a sostegno di famiglie con bambini e ragazzi che oggi stanno vivendo ciò che ho vissuto io. Il progetto pertanto prevede la costituzione di un “salvadanaio” entro cui verranno devoluti i ricavati del libro ed eventuali donazioni private. Il medesimo costituirà il pacchetto da cui si attingeranno le risorse per avviare interventi, nella bassa bergamasca, di sostegno nei confronti delle famiglie bisognose, con personale competente (psicologi ed educatori) individuato dall’Associazione Uno nessuno centomila ( infounonessuno@libero.it). Per facilitare l’accesso a tutte le informazioni abbiamo anche aperto un sito ed una pagina Facebook. Ecco, attraverso questo progetto, io, Mattia e Viviana siamo ancora una volta famiglia, corpo unico, cellula della Comunità.
Fabio Cavallari
La Nuova Bussola Quotidiana, 4 marzo 2018