Il monito è arrivato forte e chiaro, agli studenti di una università cattolica dell’Ohio: nell’epoca del diktat gender certe parole non possono essere utilizzate, in quanto discriminatorie.
Per la verità la lista del “gender inclusive language” non è recentissima: pubblicata per la prima volta nel 2015, è stata revisionata nel 2016, ma solo qualche settimana fa – a seguito delle proteste – la questione è diventata di pubblico dominio e ha costretto l’università di Dayton (UD) a pubblicare una nota con la quale prende le distanze dalla lista, che viene comunque definita «una risorsa educativa», in quanto permette di includere tutti, senza tirare in causa il sesso biologico.
La questione è paradossale: un’università cattolica, che dovrebbe poggiare le propria fondamenta sull’assunto della Genesi «uomo e donna Dio li creò» è invece la prima a piegarsi a un approccio a-gender: così facendo, nel tentativo di non discriminare, discrimina ancora di più, perché non vi è niente di più errato che trattare i diseguali (uomini e donne sono diversi, seppure abbiano pari dignità) da uguali. Ma tant’è, Google docet…
Vediamo quindi alcune delle parole “messe all’indice”: “donna delle pulizie”, “venditore”, “donna d’affari”, “poliziotto”, “vigile del fuoco”, “postino”… Al contrario, ecco alcuni termini “gender inclusive” e non discriminatori: “portavoce”, “personale di custodia”, “legislatore”, “associato”, “agente di polizia”,” pompiere” e “trasportatore di posta” o “impiegato delle poste”… Insomma, ad andare bene sono tutti i termini che non designano il sesso del professionista preso in esame e che dovrebbero teoricamente “salvaguardare” la dignità delle persone (in Italia, qualche anno fa, aveva per esempio fatto notizia la decisione di chiamare “operatori ecologici” gli “spazzini”…).
Oltre a questo, nel 2016 la lista delle “parole proibite” è stata integrata con altri due termini: “marito” e “moglie”; al posto di questi, si consiglia di utilizzare il termine “coniuge” che, bensì sia etimologicamente corretto (cum+ iugum = portare insieme il “giogo” della famiglia), è gender neutral e apre dunque alla possibilità che i due “sposi” possano essere dello stesso sesso… una scelta quantomeno bizzarra, per quella che si dice un’università cattolica. Ma sappiamo bene cosa si cela dietro queste censure apparentemente così accoglienti verso tutto e tutti: la neolingua. Infatti, il modo con cui parliamo veicola anche una precisa visione che abbiamo del mondo e dunque, il fatto di chiamare una cosa con un termine, piuttosto che con un altro non è indifferente. Si pensi, banalmente, al termine “aborto”: è una parola inequivocabile, chiara, che rimanda l’immaginario a un’idea di frattura, di morte; ecco quindi che i fautori della neolingua preferiscono l’asettico termine “interruzione volontaria di gravidanza”, che non solo nega l’atrocità dell’omicidio di un bambino nel grembo materno, ma rafforza anche l’idea perversa dell’autodeterminazione sempre e comunque.
Occorre quindi fare attenzione: ovviamente senza offendere, ma bisogna continuare a usare i termini che meglio rendono l’idea di quanto diciamo, senza piegarsi al politically correct che vorrebbe restituirci un mondo fumoso, dove il Bene e il Male non si distinguono più. Insomma, diciamo «pane al pane e vino al vino»: per noi e le nostre coscienze, ma soprattutto per le nuove generazioni (che la scuola stessa vuole mediocri e incapaci di riflettere…), che con i termini della neolingua si trovano a crescere… non nascondiamo loro una parte di realtà, aiutiamoli a rimanere liberi di pensare.
Teresa Moro
Fonte: LifeNews