Importante messaggio del Segretario di Stato vaticano in occasione della Conferenza internazionale sulle cure palliative organizzata dalla Pontificia Accademia per la Vita (PAV): confine chiaro tra cure palliative ed eutanasia, sedazione profonda solo come “estremo rimedio”.
Il primo marzo si è concluso il Congresso internazionale “Palliative Care: everywhere & by Everyone. Palliative care in every region. Palliative care in every religion or belief”, organizzato dalla Pontificia Accademia per la Vita (PAV). In occasione di questo congresso il cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin, ha inviato una lettera a mons. Vincenzo Paglia, presidente della PAV.
La lettera è ricca di spunti preziosi. Ne evidenziamo solo alcuni. Il cardinal Parolin innanzitutto inserisce le cure palliative nell’ambito più ampio del prendersi cura della persona, autentica vocazione del medico. Infatti “il suo compito è di curare sempre – scrive Parolin – anche se non sempre è possibile guarire”. Altra suggestione interessante offerta dalla missiva è il concetto di limite. Quando ogni terapia ormai si è dimostrata inutile sia a guarire il paziente che a migliorare le sue condizioni che addirittura solo a stabilizzarlo nel suo quadro clinico, ecco che le cure palliative – anche in quel frangente che mette a nudo i limiti della medicina – appaiono efficaci non solo sul piano della terapia del dolore, ma anche nel loro significato più umano dell’accompagnamento del morente. Scrive infatti Parolin: “Le cure palliative attestano, all’interno della pratica clinica, la consapevolezza che il limite richiede non solo di essere combattuto e spostato, ma anche riconosciuto e accettato. E questo significa non abbandonare le persone malate, ma anzi stare loro vicino e accompagnarle nella difficile prova che si fa presente alla conclusione della vita. Quando tutte le risorse del ‘fare’ sembrano esaurite, proprio allora emerge l’aspetto più importante nelle relazioni umane che è quello dell’’essere’: essere presenti, essere vicini, essere accoglienti. Questo comporta anche il condividere l’impotenza di chi giunge al punto estremo della vita”.
Poi il Segretario di Stato ricorda un punto centrale della dottrina cristiana fondata sul personalismo ontologico: nessuna patologia, nessuna disabilità, nessun clessidra che ci dice che ormai il tempo sta per scadere può legittimare l’eutanasia, perché nessuno di questi fattori riesce a cancellare nel paziente la sua dignità personale: né la sua maggiore o minore perfettibilità fisica, né la perdita di funzioni elevate quali l’autocoscienza e la comunicazione con terze persone, né il tempo che gli rimane da vivere. Lasciamo nuovamente la penna a Parolin: “Questo prezioso legame [di cura vicendevole lungo tutto l’arco dell’esistenza] sta a presidio di una dignità, umana e teologale, che non cessa di vivere, neppure con la perdita della salute, del ruolo sociale e del controllo sul proprio corpo”.
La lettera, prima di chiudersi, tocca un aspetto attinente le terapie del dolore che il Magistero aveva sempre tenuto in grande considerazione: la perdita della coscienza a seguito di terapie antalgiche è un effetto indiretto che può essere accettato solo come extrema ratio, dato che la persona dovrebbe vivere con piena consapevolezza anche gli ultimi istanti di vita. Il Segretario di Stato a questo proposito ricorda che “con la sedazione, soprattutto quando protratta e profonda, viene annullata quella dimensione relazionale e comunicativa che abbiamo visto essere cruciale nell’accompagnamento delle cure palliative. Essa risulta quindi sempre almeno in parte insoddisfacente, sicché va considerata come estremo rimedio, dopo aver esaminato e chiarito con attenzione le indicazioni”.
In questo periodo di lassismo dottrinale la lettera del cardinal Parolin pare quindi richiamare alcuni punti fermi della dottrina relativi alla inviolabile dignità delle persone moribonde. Un richiamo assai opportuno all’indirizzo della Pontificia Accademia per la Vita che nel novembre scorso organizzò un convegno sul fine vita in collaborazione con la World Medical Association, convegno in cui presero la parola alcuni relatori favorevoli all’eutanasia. Il convegno di questi due giorni presenta anch’esso delle ombre. Infatti ieri è intervenuta la dott.ssa Kathleen Foley che è stata responsabile per nove anni del Project on Death in America (Progetto sulla morte in America), progetto finanziato dal famigerato Open Society Institute, fondazione eretta dal magnate George Soros. Nel 2005 la Foley fu chiamata come esperta ad esprimere un parere su un disegno di legge inglese dal titolo Assisted Dying for the Terminally Ill. Nel suo intervento la Foley apparve possibilista in merito all’aiuto al suicidio.
Dovremo attendere la lettura degli atti del convegno per fornire un giudizio ponderato sulla due giorni di lavoro della PAV, però il nostro timore nasce dal fatto che sotto le mentite spoglie delle cure palliative e delle terapie del dolore qualcuno, anche in casa cattolica, voglia occultare pratiche mortifere, ossia tracciare una via cattolica all’eutanasia. E’ infatti noto che dosi massicce di farmaci nati per domare il dolore possono invece provocare volutamente la morte del paziente.
Tommaso Scandroglio
La Nuova Bussola Quotidiana, 1 marzo 2018