I grandi progressi della medicina dalla seconda metà del secolo scorso hanno contribuito a esaltarne la crescente capacità diagnostica e terapeutica.
Una immagine che si è proiettata sui malati e i loro familiari, generando attese realistiche alcune volte e altre, invece, sproporzionate o illusorie. In questa onda celebrativa dei successi raggiunti e previsti, amplificata dai mass media, anche gli stessi medici corrono il rischio serio di concepire la propria professionalità scientifica e clinica come ars sanandi, mettendo in secondo piano la ars curandi. Si rende così necessaria «una riscoperta della vocazione più profonda della medicina, che consiste prima di tutto nel prendersi cura: il suo compito è di curare sempre, anche se non è possibile guarire».
Lo ha ricordato il segretario di Stato vaticano in un messaggio a nome di papa Francesco al Convegno sulle cure palliative della Pontificia accademia per la vita. Un ritorno della «sapienza della finitezza […], la consapevolezza che il limite [della capacità di guarire] richiede non solo di essere combattuto e spostato, ma anche riconosciuto e accettato», ha ricordato il cardinale Pietro Parolin. Un genuino senso del limite è necessario per vincere la tentazione di una onnipotenza biomedico- tecnologica, forma attuale di quella perenne che «è la hybris: l’autosufficienza presuntuosa, in cui l’uomo eleva se stesso a divinità, vuole essere lui stesso il suo dio, per essere completamente padrone della propria vita» (Benedetto XVI, 2007).
È invece proprio «la logica della cura» – prosegue il messaggio – che custodisce «quella mutua dipendenza d’amore» che, «nei momenti di malattia e di sofferenza, soprattutto al termine della vita», lega con un patto inscindibile di alleanza il medico, il paziente e i suoi cari, un «prezioso legame che sta a presidio di una dignità, umana e teologale, che non cessa di vivere, neppure con la perdita della salute, del ruolo sociale e del controllo sul proprio corpo». La medicina, «anche quando agisce con efficacia realizzando guarigioni talvolta spettacolari, non si dimentichi di questo atteggiamento di fondo che sta alla radice di ogni relazione di cura». Il richiamo è a non confondere due atti medici di natura diversa.
Da una parte la terapia (atto volto a contrastare farmacologicamente, chirurgicamente o con altri mezzi una patologia al fine di giungere alla guarigione o al rallentamento del decorso della malattia) che, in alcune circostanze, può o deve essere giustamente interrotta per lasciare spazio alle cure palliative, che includono il trattamento del dolore, giungendo, se necessario, anche alla sedazione antalgica (il messaggio riprende un fondamentale discorso di papa Pio XII del 1957, recentemente richiamato anche da papa Francesco). Dall’altra parte, diverse clinicamente ed eticamente sono le cure essenziali per la fisiologia del corpo umano di ogni malato, anche quello nella fase terminale della vita, che, unitamente alle dimensioni «relazionali e comunicative, includendo l’accompagnamento spirituale e la preghiera», fanno parte di un approccio palliativo integrato e integrale alla malattia inguaribile. Un simile sostegno vitale non terapeutico – «nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria» (Congregazione per la dottrina della fede, 2007) – non può mai venire lecitamente interrotto.
Farlo significherebbe anticipare intenzionalmente con un atto omissivo la morte del paziente, pur inevitabile nel tempo, e questo non rientra negli scopi delle cure palliative né in altro compito della medicina. Un messaggio, quello giunto ieri, che si ricollega fortemente a quello del Papa al convegno sul ‘fine vita’ tenutosi nel novembre scorso. In esso papa Francesco, mentre esortava a non «accanirci inutilmente» contro la morte, ricordava a tutti come si debba prendere atto che «della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione», ma che sia necessaria la consapevolezza che «della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita».
Roberto Colombo
Avvenire.it, 1 marzo 2018