“Certo, donna, tutto quello che dici è caro anche a me, ma avrei molta vergogna dei troiani e delle troiane dai lunghi pepli se restassi come un vile lontano dalla guerra. Né l’anima mia lo vuole: ho imparato a essere sempre coraggioso e a battermi nelle prime file dei troiani con grande gloria per mio padre e per me”.
I versi sopra riportati sono tratti da uno dei passi più celebri dell’Iliade: Ettore, il più valoroso tra i combattenti di Ilio, saluta per l’ultima volta la moglie e il figlioletto. I suoi doveri verso la patria e la famiglia, che gli derivano dall’essere uomo, soldato e principe, gli impongono di affrontare in prima persona il più temibile nemico, figlio di una dea. Nonostante le umane e comprensibili richieste della moglie Andromaca, Ettore non si tira indietro, anche se sa che il suo destino è segnato, e che da quello scontro non uscirà vivo.
Nei poemi omerici, miti fondanti della civiltà europea, è già delineato un tipo umano maschile che avremmo ritrovato perpetuato nei secoli, soprattutto nel medioevo cristiano: il cavaliere. Coraggioso, padrone di sé, protettore dei deboli e avverso ai prepotenti. I cosiddetti “monaci guerrieri”, i religiosi che avevano il compito di proteggere i pellegrini cristiani in terra santa, sono state forse le figure più virili della storia: forti nello spirito, ma forti anche nel braccio, che all’occorrenza sguinava la spada. I più famosi furono i cavalieri templari, anche per le leggende più o meno interessanti sorte intorno alla loro tragica fine. Giusto per citare un’esperienza tra le tante.
Rispondere alla domanda “Cos’è rimasto nell’occidente post-moderno del vir, dell’uomo guerriero?” di certo non è facile, e necessiterebbe di un libro a sé e non di un breve articolo. Tuttavia possiamo rilevare che l’allarme lanciato da sociologi, psicologi e psichiatri è che di questo uomo virile, “dominatore di sé prima che dominatore di altri”- per dirla con le parole di uno che di guerre se ne intendeva – non è rimasto niente. O quasi.
Un caso che ha fatto discutere, e che può forse essere elevato a paradigma, è il fatto di cronaca avvenuto in alcune città tedesche la notte di Capodanno di due anni fa, e di cui “Le Fondamenta” si è già occupato: centinaia di donne vennero molestate da stranieri ubriachi, mentre gli uomini autoctoni risultarono… non pervenuti. Un caso limite, certo, ma indicativo di una tendenza. E’ mancato il richiamo dell’istinto, del naturale effetto del testosterone che porta alla difesa del territorio; ma anche e soprattutto della consapevolezza di dover difendere le figure più vulnerabili della proprio comunità di appartenenza, in base al ruolo che gli uomini avevano (avrebbero dovuto avere) nella comunità stessa.
Nella società occidentale attuale-senza generalizzare, ma rilevando una tendenza, come detto, già denunciata da più voci-si sta realizzando una crisi d’identità dell’uomo, nelle sue varie sfaccettature.
Se quella del cavaliere può sembrare una figura anacronistica (sebbene a volte, a quanto pare, potrebbe essercene ancora bisogno) la stessa cosa vale ad esempio per l’uomo visto come padre. Il numero sempre maggiore di divorzi ha fatto crescere un’intera generazione di figli, di fatto, senza la presenza costante della figura paterna. Stando ai numeri, infatti, in Europa occidentale molti nuclei famigliari sono composti solo da “ragazze madri” o donna divorziata con figli. Ciò, non senza danni per il sano sviluppo psicologico di questi bambini, che abbisognerebbero dell’esempio del padre per meglio confrontarsi col mondo esterno.
D’altronde, nel contesto di una società in cui imperversa un femminismo aggressivo, volto a colpevolizzare l’uomo in quanto tale, e in cui sta prendendo pericolosamente piede la cosiddetta “ideologia di genere”, che sostiene che non ci sono distinzioni tra i sessi, né legami tra il sesso e la natura, in quanto il sesso stesso non è appunto un dato naturale ma una costruzione sociale (5) che dipende dai capricci di ognuno, non ci stupiamo se l’uomo nelle sue declinazioni storiche e naturali più immediate, quelle di pater e milis, sia in crisi.
Non che gli uomini, però- e giungo alle conclusioni finali- non siano corresponsabili di quanto sta accadendo. Siamo noi- o forse tanti di noi, non tutti, deo gratias– che abbiamo abdicato al nostro ruolo, che abbiamo creduto che il principio di autorità equivalesse davvero all’autoritarismo (eh, è più facile non avere responsabilità); che la virilità non fosse controllare se stessi, le proprie pulsioni, le delusioni della vita; il misurarsi senza paura coi forti o il proteggere i deboli; ma al contrario che questo concetto si esaurisse nel depilarsi, nel palestrarsi, nel farsi le lampade.
L’uomo non educato a essere uomo, però, può essere anche molto pericoloso e non solo per gli effetti a lungo termine che può subire una società devirilizzata. Non voglio addentrarmi nella questione sociologica del femminicidio (molti contestano il termine stesso, in quanto la maggior parte dei morti ammazzati sono uomini), ma certo i casi di uomini-eunuchi, bamboccioni non in grado di accettare con forza le avversità della vita (un rifiuto, un abbandono) che uccidono la compagna/moglie sono tanti e sono all’ordine del giorno (6). Anche questo potrebbe essere messo nel conto delle conseguenze di quella che ormai possiamo chiamare crisi dell’uomo occidentale.
Simone Ziviani
www.lefondamenta.it, 12 marzo 2018