Le persone non sembrano più disposte a sopportare uno stato d’emergenza di cui non si vede la fine.
Non so se sia vero. Non lo sa nessuno. La scienza, cui personalmente mi affido, si è fin qui dimostrata mirabilmente efficace nelle sue applicazioni pratiche (i vaccini) ma piuttosto fallimentare nella sua capacità di previsione. Sarebbe dunque esercizio vano quello di dedicarsi a delineare scenari futuri. Dovremmo, invece, interrogare quella frasetta — forse insensata — con la quale la psiche collettiva esprime il suo disagio: «Tanto la prenderemo tutti». E il suo corollario: «Così non si può andare avanti». È annidata lì dentro, nella vastità dei luoghi comuni, la verità sul mondo di domani. Dobbiamo dare ascolto al tono con cui quelle frasi vengono pronunciate — a volte rabbioso, sconsolato ma più spesso incline a una fatalistica rassegnazione, quasi risoluto — per prevedere cosa ci aspetta. È l’umore con cui andiamo incontro a questo nostro nuovo giorno che, a lungo andare, si rivelerà decisivo.
La combinazione di quelle due frasi sintomatiche indica, a mio avviso, che siamo a un punto di svolta. La maggioranza di noi si avvia a mutare la propria prospettiva sulla pandemia e, con essa, la propria visione del mondo. Forse lo ha già fatto. Se nei primi mesi dell’emergenza la prospettiva è stata di tenore epico-eroico — lotteremo, resisteremo, moriremo, infine vinceremo e i vivi, seppelliti i morti, rinasceranno —, se negli ultimi mesi ha prevalso una tonalità tragica (non c’è riparo, non c’è salvezza, l’inverno è infinito), ora va affermandosi un punto di vista più prosaico, più dimesso, uno sguardo rivolto all’epica minore della vita quotidiana, domestica, ordinaria. Detto in altri termini, non siamo più disposti a sopportare uno stato d’emergenza di cui non si vede la fine, una sospensione indefinita del tempo ordinario delle nostre vite. Sempre più persone avvertono come prioritario e inderogabile il ritorno alla normalità, anche a costo di cambiare la propria idea su cosa sia una vita normale.
Questo significherebbe che siamo pronti ad accettare la malattia da Covid tra i rischi della nostra vita futura, a inserire questa nuova causa di sofferenza e morte alla lunga lista delle patologie che abitualmente insidiano la nostra salute. Questo significherebbe che siamo pronti a dire di un nostro conoscente, amico o parente, che è morto di Covid come abbiamo detto e diremo che è morto di tumore. A patto che ci venga restituita una vita normale, di una «normalità diminuita», se preferite, ma pur sempre normalità.
Ci abitueremo a vaccinarci all’inizio di ogni nuovo inverno, a travisare i nostri volti sotto le mascherine sui mezzi pubblici, a qualche altra piccola o grande rinuncia. Ci adatteremo, insomma, a una nuova norma. Poi, di tanto in tanto, qualcuno si ammalerà, qualcun altro cadrà. D’altro canto, noi cosiddetti «occidentali» delle generazioni nate dopo la fine della Seconda guerra mondiale, apparteniamo al pezzetto di umanità più sicura, protetta, meglio curata e meno esposta al rischio di malattie che abbia mai calcato la faccia della terra. Si tratterebbe, dunque, solo di rinunciare a una quota di questo nostro privilegio.
Cambio di prospettiva
Abbandonata l’idea di dominare la Terra e il nostro destino dovremo scoprire il concetto di cura: di sé, degli altri, del mondo
Se questo nostro attuale umore dovesse disegnare il mondo di domani, ciò comporterebbe, però, anche un non trascurabile mutamento nella nostra visione del mondo: il leit motiv del capodanno 2021 — «tanto la prenderemo tutti» — ci racconta anche di una sconfitta. A essere sconfitto definitivamente sarebbe il sogno moderno di previsione e controllo, l’idea prometeica dell’uomo come dominatore della Terra e del proprio destino. Dovremmo abbandonare la speranza trionfalistica nella guarigione per far posto al più umile concetto di cura. Dovremmo accettare l’idea che l’uomo è l’animale costitutivamente «malato», che non esiste «corpo sano» ma un organismo sempre in precario equilibrio tra salute e malattia.
Giù per questa china, la pandemia di Covid ci infliggerebbe quella che Freud definì «ferita narcisistica», vale a dire un attacco all’amore di sé che l’umanità possiede da sempre e all’arbitraria convinzione dell’uomo di essere una specie eletta. Il fallimentare tentativo di renderci immuni al Covid, l’accettazione di una prolungata, forzata convivenza con esso, dopo quelle inflitteci da Copernico (non siamo al centro dell’universo), da Darwin (siamo il mero prodotto dell’evoluzione e non immagine divina), dallo stesso Freud (l’Io non è padrone in casa propria ma governato dall’inconscio), rappresenterebbe la quarta ferita narcisistica per un’umanità che si scoprirebbe, al principio del XXI secolo e del terzo millennio, incapace di badare a se stessa. In questo modo, la pandemia endemica farebbe il paio con la crisi ambientale, entrambi macrofenomeni prodotti o alimentati dagli stili di vita del capitalismo maturo che, sfuggiti al nostro controllo, ci riporterebbero a una sorta di stato di minorità. Gli inverni pandemici sarebbero dominati dal primo, le estati soffocanti e tempestose dalla seconda.
Non è una prospettiva euforizzante, lo so bene. Ma so anche che a ciascuna delle tre ferite narcisistiche da noi subite in precedenza ha, poi, corrisposto un salto evolutivo, un nuovo slancio vitale imposto dalle menomazioni alla nostra tracotanza, il dischiudersi di un ulteriore orizzonte grazie alla consapevolezza dei nostri limiti. Sostituire l’idea tenace, umile, industriosa di cura a quelle trionfalistiche e arroganti di guarigione e di immunità, potrebbe essere un ottimo affare per l’umanità. La cura di sé, degli altri, del mondo in cui viviamo. Il lavoro costante e quotidiano di un’intera vita, non lo sforzo eroico di una sola stagione.
È questo l’augurio che rivolgo a tutti per il nuovo anno.
Antonio Scurati
Corriere della Sera
7 Gennaio 2022