A Rivoli (Torino) un pensionato di 77 anni, malato di tumore, prima ha ucciso l’anziana madre e poi si è suicidato. Un gesto divenuto sempre più frequente. Perché?
Leggo del pensionato di Rivoli, 77 anni, che ha scoperto di avere un tumore, ha ucciso la madre di 101 anni e si è sparato, e ho ancora negli occhi lo strazio dei funerali di Alessia e Martina, uccise dal padre carabiniere che poi si è suicidato. Leggo del pensionato di Rivoli, e tra le righe trovo la notizia di un novantenne che pochi giorni prima a Torino ha ucciso la moglie di 88 anni e poi ha rivolto la pistola contro se stesso. Leggo tutto questo e ho sul tavolo l’ultimo libro di Eugenio Borgna, il grande psichiatra che ha dedicato la vita a condividere e alleviare le sofferenze dei malati di mente dell’ospedale di Novara, L’arcobaleno sul ruscello. È dedicato alla speranza. Scrive cose che aprono il cuore, Borgna. “La speranza resiste ai naufragi delle speranze”. “La speranza è qualcosa di indistruttibile che non muore nemmeno nelle alte maree della disperazione” (questa è una citazione da Kafka). Cita san Paolo: “Nella speranza noi siamo stati salvati”. E così via. Ma per il pensionato di Rivoli, il carabiniere di Latina, il nonagenario di Torino tutto questo non è stato vero. Non hanno più visto davanti a sé alcun bene possibile, per sé e per quelli che amavano. E questo non può non interrogarci.
In verità, la speranza è fragile, scrive Péguy. “Ma la speranza, dice Dio, ecco quello che mi stupisce. Che quei poveri figli vedano come vanno le cose oggi e credano che andrà meglio domattina. La speranza non va da sola. Per sperare, bimba mia, bisogna essere molto felici, bisogna avere ricevuto, ottenuto una grande grazia”. La speranza non va da sola. Come si può sperare, in un mondo di profeti di sventura, che sembrano prendere gusto a dire che tutto va male (e non è vero), che tutto va di male in peggio (e non è vero), che oggi è peggio di ieri e meglio di domani (per parafrasare un noto slogan — e anche questo non è vero)? Come si fa a sperare, in un mondo che fa di tutto per combattere, per cancellare la “grande grazia” di cui scrive Péguy? Come stupirsi, se in un mondo così i disperati aumentano? Non sono improvvisamente impazziti, il pensionato di Rivoli, il carabiniere di Latina, il nonagenario di Torino. Troppo comodo. Sono il risultato di un mondo che continua a dire che tutto va male, che se tutto va bene l’unica speranza è il successo. Che la speranza di cui scrive san Paolo è un’illusione.
È un compito, la speranza. Un compito per tutti quelli che hanno ricevuto la “grande grazia” di cui scrive Péguy. Ma anche per tutti quelli che non l’hanno ricevuta, o non l’hanno riconosciuta, ma vogliono vivere da uomini. Perché il mondo è pieno di possibilità buone: riconoscerlo è umano, negarlo è inumano. Ritorno a Borgna: “A tutti è demandato il compito di dire parole che non feriscano la speranza”. Altrimenti siamo complici della disperazione.
Roberto Persico
Il Sussidiario.net, 12 marzo 2018